Punto di vista

Agricoltura sostenibile: le certificazioni provano davvero la sostenibilità?


Tessa Gelisio, agricoltura sostenibile

Soprattutto negli ultimi mesi, facendo la spesa mi sono accorta di una singolare “rivoluzione” da parte dei produttori: non c’è confezione di alimentari che non riporti almeno un bollino verde, pronto a certificare un pieno supporto alla cosiddetta “agricoltura sostenibile” durante le fasi di produzione. L’avete notato anche voi?

Eppure, a ben guardare, questa nuova tendenza più che rassicurare il consumatore potrebbe addirittura confonderlo: i bollini sono decine e tutti fra loro diversi, così come molteplici sono gli enti certificatori. Perché, di fatto, non esiste una vera e propria standardizzazione nella definizione di cosa sia “agricoltura sostenibile”, né un vero e proprio marchio\certificazione che permetta a noi acquirenti di essere più che certi di comprare un alimento a basso impatto ambientale. E il dubbio mi è ovviamente sorto: siamo di fronte a una vera nuova era della produzione alimentare o, invece, si tratta di un ben più modesto tentativo di greenwashing?

Agricoltura sostenibile? Un mare in tempesta di certificazioni

Certificazioni agricoltura sostenibile

Diciamolo chiaramente: parlare di “agricoltura sostenibile” può significare tutto e niente. Innanzitutto, poiché si dovrebbe parlare di “agricoltura più sostenibile”, poiché è difficile definire sostenibile un processo produttivo. Inoltre, una definizione così vaga può lasciar spazio ai produttori per mettere in risalto i successi raggiunti sul fronte della protezione del Pianeta ma, al contempo, nascondere sotto al tappeto gli ambiti ancora da migliorare.

Così, negli ultimi anni sempre più produttori hanno scelto la via del “bollino”, un marchio riportato in confezione che dovrebbe rassicurare i consumatori sulla natura green del prodotto acquistato. Ma non vi è un marchio unico o una certificazione basata su una normativa come accade per il biologico, e capire quali criteri vengano considerati, e quali scartati, è davvero difficile.

In linea di massima, i produttori si stanno orientando in questo modo:

  • Certificazioni interne: sul fronte di un’agricoltura più sostenibile, molti produttori hanno deciso di adottare dei disciplinari interni, delle regole autoprodotte per garantire un maggiore rispetto dell’ambiente in tutte le fasi di produzione dell’alimento. Non si tratta di una scelta di per sé negativa, ma manca l’autorevolezza di un ente esterno che fissi dei parametri oggettivi e che possa verificare che quanto affermato dall’azienda venga effettivamente seguito;
  • Certificazioni private: sia enti certificatori privati che organizzazioni non governative (ONG) stanno sempre più fornendo servizi di certificazione, anche con criteri molto rigidi. Eppure, per quanto serie siano queste organizzazioni, un produttore potrebbe approfittarne per scegliere l’ente che più si addice alle sue esigenze, continuando invece a mantenere nascoste le aree più problematiche della produzione;
  • Certificazioni istituzionali: al momento, non esiste un vero e proprio marchio per l’agricoltura sostenibile promosso a livello istituzionale, come nel caso dell’Ecolabel europeo per i prodotti non alimentari realizzati e distribuiti con una maggiore attenzione al Pianeta o come per i cibi biologici. Qualcosa si sta muovendo ora, con diverse proposte a livello europeo, ma sembra ancora mancare un piano unificato su cui lavorare.

Questa scarsa standardizzazione ha portato a un vero e proprio “mare in tempesta delle certificazioni”, dove ogni produttore sfoggia decine di bollini in confezione, marchi propri o di enti terzi, questi ultimi selezionati in maniera a dir poco sartoriale. E il consumatore, ovviamente, non può che annegarci.

Il quadro istituzionale dell’agricoltura sostenibile

Agricoltura sostenibile, campi

Così come ho già accennato, a livello europeo non si è ancora arrivati a stabilire uno standard univoco per la certificazione della cosiddetta agricoltura sostenibile. Al momento esiste un regolamento – l’1169/2011 – che impone ai produttori di esporre in etichetta informazioni chiare sulle caratteristiche dell’alimento, la sua produzione e la sua lavorazione ma dice poco ai più sull’impatto ambientale. Vi sono poi vari standard ISO – come la ISO 14025 o “DAP”, la Dichiarazione Ambientale di Prodotto – che permettono di verificare che le varie aziende seguano delle specifiche indicazioni per assicurare che i loro prodotti vengano realizzati con un minor impatto per l’ambiente.

Lo scorso luglio la Commissione Europea, insieme a 65 aziende e varie associazioni, ha approvato un “Codice di Condotta” all’interno della strategia Farm to Fork, per definire un piano a lungo termine di maggiore sostenibilità per l’agricoltura e l’allevamento, nonché per la produzione e la distribuzione di prodotti alimentari. Ma al momento si tratta ancora di una lista di “impegni volontari”, sottoscritti dalle aziende e dalle associazioni partecipanti, non di uno standard normativo applicato a tutti.

Anche i famosi parametri LCA (Life Cycle Assessment) – un metodo strutturato e standardizzato per misurare l’impatto sull’ambiente e sulla salute umana di un prodotto o un servizio – potrebbero non essere completamente esaustivi quando si parla di produzione agricola, perché non incorporano un numero sufficiente di indicatori ecologici specifici per poter davvero misurare simili attività.

Ma come orientarsi, come riconoscere l’agricoltura sostenibile?

Ma in un quadro così complesso, cosa può fare il consumatore? Ci dobbiamo fidare acriticamente dei bollini che le varie aziende riportano sulle confezioni o, in alternativa, è necessario qualche passo in più? In attesa di una soluzione univoca, diamogli poco conto e informiamoci per fare acquisti quanto più responsabili possibili. Ho raccolto per voi alcuni consigli che potrebbero tornare utili.

Agricoltura biologica, biodinamica e rigenerativa

Agricoltura biologica

Un primo modo per capire se il prodotto che stiamo acquistando provenga da un’agricoltura “più sostenibile” è, seppur in modo indiretto, affidarsi ad altre certificazioni. Ad esempio quelle per l’agricoltura biologica, normate a livello europeo da Regolamento UE. Oltre a uno specifico logo, questo regolamento con mille divieti, regole e controlli, certifica prodotti provenienti da metodo agricolo a minor impatto che assicura la naturale fertilità del suolo, il rispetto dell’ecosistema, la salubrità dei prodotti e l’assenza di prodotti di sintesi, come ad esempio insetticidi contro gli insetti o fertilizzanti chimici.

Anche le realtà biodinamiche, tralasciando la parte più “esoterica” della loro produzione, rispecchiano i criteri dell’agricoltura biologica. E così anche l’agricoltura rigenerativa che, pur priva di una certificazione univoca, rispetta tutti i cardini di maggiore sostenibilità delle due realtà precedenti.

Non solo packaging

Agricoltura sostenibile, packaging

Quando osserviamo le etichette dei prodotti, prestiamo molta attenzione ai bollini presenti. Poiché molti non certificano effettivamente la maggiore sostenibilità del prodotto, bensì quella del packaging o del trasporto. E confondersi è fin troppo semplice.

Per quanto una maggiore attenzione all’ambiente vada solitamente di pari passo sia sul fronte della coltivazione che dei materiali usati per le confezioni, non è automatico che un alimento conservato in confezioni al 100% riciclabili o biodegradabili sia stato prodotto anche in modo più sostenibile. In altre parole, le certificazioni di packaging non stabiliscono quali tecniche di coltivazione\produzione siano state seguite ma, ovviamente, identificano soltanto la confezione.

Non tutte le certificazioni sono fuorvianti

Agricoltura sostenibile, carote

Va però detto che, in attesa di un futuro più uniformato sull’identificazione dei bollini per l’agricoltura sostenibile, non tutte le certificazioni oggi esistenti sono fuorvianti. Certo, serve però sempre una ricerca attenta da parte del consumatore, ma diverse aziende sono davvero motivate da un desiderio di maggiore rispetto per l’ambiente e, in attesa di uno standard futuro, si sono organizzate con le soluzioni più immediate.

Ma come muoversi su questo fronte?

  • Certificazioni e disciplinari interni: non è detto che un’azienda opti per certificazioni autoprodotte o disciplinari interni solo a scopo di marketing, alcune hanno elaborato dei sistemi virtuosi di rispetto ambientale, dagli elevati principi qualitativi;
  • Certificazioni di enti terzi, ONG o privati: il fatto che un’azienda si affidi a un ente terzo è spesso positivo, poiché significa che è disposta a far controllare tutte le fasi di produzione – comprese quelle agricole – a realtà indipendenti. Fra le più famose e affidabili ci sono le certificazioni della World Standard Organization (WSO), quindi trovare in confezione il marchio “Friends of Earth” potrebbe garantire una buona sicurezza al consumatore. Ma anche la Rainforest Alliance ha degli standard molto rigidi sul fronte delle pratiche agricolturali, così come la certificazione REDCert2, da sempre ottimo riferimento per il settore. Così molte altre: prendiamo nota dell’ente riportato in etichetta e, raggiunto il relativo sito ufficiale, leggiamo bene cosa certifichi e quali elementi include nel suo sistema di verifica;
  • Slogan in etichetta: meglio invece diffidare da semplici slogan riportati in etichetta, come i vari “Da agricoltura sostenibile”, “Oggi più amico dell’ambiente”, “Coltivato con meno sprechi d’acqua”. Se l’informazione non è verificabile, né tramite una certificazione interna né tramite una di terze parti, rimane un semplice claim pubblicitario.

In definitiva, per sapere se il nostro alimento preferito sia stato davvero prodotto seguendo le pratiche di un’agricoltura più sostenibile, non limitiamoci a osservare i bollini in etichetta. Dedichiamo qualche minuto del nostro tempo per andare a verificare cosa quel bollino effettivamente stia certificando, da chi è stato rilasciato e quali regole i produttori devono rispettare per ottenerlo.

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