Green lifestyle

Banane ecosostenibili, sono davvero sicure?


Quando il bollino di certificazione non dice tutta la verità

La banana è il frutto più consumato al mondo, ma è anche uno dei meno sostenibili, nonostante le grandi aziende produttrici abbiano ormai sostituito il loro tradizionale marchio di fabbrica con un attraenti loghi green.

Dopo aver lasciato le piantagioni di Santo Domingo, Peru, Guatemala ed Equador e attraversato gli oceani per migliaia di chilometri, arrivano sulle tavole europee circa 50 milioni di tonnellate di banane ogni anno e la promessa è una sola: per coltivarle è stato rispettato l’ambiente, sono state tutelate le risorse naturali e sono stati aiutati i lavoratori locali.

A garantirlo sono i bollini green rilasciati dalle società di certificazione come, ad esempio, FairTrade, Scs Global e Rainforest Alliance. E a pagare per ottenere i marchi di eco sostenibilità sono le più grandi aziende produttrici di banane del mondo, tra cui Del Monte, Dole e Chiquita, che hanno intuito il grandissimo potenziale commerciale dei prodotti green, una sfumatura verde che fa impennare i guadagni e accresce la cosiddetta brand reputation.

Fonte: wordpress.com

Ma è davvero così? Le piantagioni di banane certificate hanno realmente un basso impatto ambientale e rappresentano per le popolazioni locali una vera opportunità di sviluppo sostenibile? 

Un interessante reportage di Internazionale del 2017 ha evidenziato alcune preoccupanti criticità di questo settore con una interessante indagine condotta nella Repubblica Dominicana, dove i diritti dei lavoratori locali, in maggioranza immigrati haitiani, sono tutt’altro che rispettati: salari da fame, condizioni di lavoro inaccettabili e pochissimi investimenti in progetti umanitari e di assistenza sociale

Anche io ho avuto modo di constatare una situazione simile alcuni anni fa in Costa Rica. Visitando un’azienda agricola produttrice di frutti tropicali, ho assistito all’uso indiscriminato di pesticidi e fertilizzanti, nebulizzati dagli aerei senza alcuna misura di precauzione nei confronti non solo della foresta circostante ma anche dei residenti locali, affetti da gravi patologie causate proprio dalla contaminazione chimica. Per non parlare delle degradanti condizioni di lavoro dei raccoglitori e dei numerosi episodi di corruzione e abuso testimoniati dalle persone che ho intervistato. 

Denunciati per anni dagli ambientalisti di tutto il mondo, questi fenomeni dovrebbero essere scongiurati grazie alle certificazioni di sostenibilità, alle quali ricorrono sempre con maggiore frequenza le grandi aziende produttrici. Marchi di garanzia che, però, fanno riferimento a parametri e criteri diversi, per cui ad oggi non esiste un vero sistema univoco di certificazione.

Per capire meglio come funzionano i bollini di sostenibilità, abbiamo chiesto a Thomas Zulian, direttore commerciale di Fairtrade Italia, uno dei maggiori marchi di certificazione di prodotti biologici ed equo solidali. «Nonostante il trend positivo del settore, persistono alcune difficoltà. I grandi rivenditori continuano ad abbassare il prezzo delle banane per attirare gli acquirenti e questo incide fortemente sui Paesi produttori, dove i guadagni sono ridotti al minimo ed è difficile fare investimenti adeguati, come migliorare le tecniche di risparmio dell’acqua o realizzare progetti di mitigazione del cambiamento climatico.»

Uno dei pilastri dello standard Fairtrade prevede un premio per i raccoglitori locali, derivato dalla vendita dei prodotti, che deve essere reinvestito in progetti educativi, sanitari e ambientali. Ma come si ottiene il marchio Fairtrade e quali sono i controlli che garantiscono il rispetto degli standard? «Le aziende e le cooperative produttrici possono aderire liberamente al sistema Fairtrade ottenendo la certificazione, previa visita ispettiva dell’ente di certificazione, che si chiama FLOCERT. Oltre alle ispezioni ordinarie, sono previsti anche controlli a sorpresa, più frequenti in situazioni particolarmente problematiche o ad alto rischio.»

Rainforest Alliance, vero e proprio leader mondiale nel settore delle certificazioni di sostenibilità, utilizza invece 94 criteri, dal rispetto delle condizioni dei lavoratori alla tutela dell’ambiente, ma è sufficiente dimostrare di rispettarne l’80% per ottenere l’ambito bollino verde. Non molto, se pensiamo che una azienda può scegliere di rispettare solamente i criteri più semplici, come predisporre analisi periodiche delle sostanze che contaminano gli scarichi, per poi tralasciare, invece, quelli più difficili da rispettare, come il pagamento di un salario minimo o il divieto di impiegare lavoro minorile.

Purtroppo Rainforest Alliance non prevede controlli a sorpresa, dando così modo alle aziende agricole di prepararsi alla visita degli ispettori istruendo il personale a dovere e nascondendo eventuali magagne. 

Anche sull’impiego della chimica occorre fare chiarezza. Diserbanti, pesticidi e funghicidi vengono largamente utilizzati nelle piantagioni di banane, con un elevato potenziale dannoso per gli ecosistemi naturali e per le popolazioni locali. 

Fonte: eurekalert.org

Un uso massiccio che ha reso sempre più resistenti i funghi che colpiscono le piante di banane e ha innescato un terribile circolo vizioso che prevede un impiego sempre crescente di queste sostanze tossiche. Niente di strano apparentemente, visto che le leggi in molti Paesi produttori autorizzano l’irrorazione di questi veleni su campi e piantagioni e anche alcuni enti certificatori, tra cui Scs Global, non lo ritengono un problema per il rilascio del bollino di garanzia. Anche Rainforest Alliance ha regole alquanto morbide, poichè richiede soltanto che i funghicidi vengano applicati rispettando 30 metri di sicurezza dalle abitazioni e 15 metri dai corsi d’acqua. 

E poi ci sono i trattamenti chimici a cui sono sottoposti i frutti prima di affrontare il trasporto oltreoceano: pesticidi e conservanti che garantiscono la freschezza del prodotto e ne impediscono l’annerimento. Anche in questo caso, enti certificatori come Rainforest Alliance chiudono un occhio. Scs Global richiede che i lavoratori indossino equipaggiamenti e protezioni per evitare l’inalazione e il contatto con i veleni tossici ma non sempre queste precauzioni vengono rispettate. Ma quali sono le conseguenze per la salute dei lavoratori locali, costretti a vivere in un ambiente altamente contaminato

Per non parlare della salute dei consumatori finali, cioè noi. E qui entrano in gioco le nostre autorità per la sicurezza sanitaria e le lacune non mancano. Pensate che un recente rapporto dell’Agenzia sulla Sicurezza Alimentare ha evidenziato che nel 2015 i campionamenti sanitari sulle banane in arrivo nei porti europei sono stati poco più di 1.200, lo 0,00025% del totale delle importazioni europee. Pesticidi e funghicidi sono stati ampiamente rilevati nella maggioranza dei campioni. Come fare, allora, per portare sulle nostre tavole banane sicure e rispettose dell’ambiente?

Maggiori garanzie arrivano certamente dall’agricoltura biologica certificata, dove i parametri di sicurezza e sostenibilità sono molto più rigorosi. La filiera biologica, infatti, richiede che le banane vengano coltivate senza l’uso di pesticidi chimici sintetici, con diserbo effettuato a mano, utilizzando fertilizzanti e concimi organici, affidandosi alla lotta biologica per il controllo dei parassiti infestanti. Non solo, il bio tende a limitare la distruzione di foresta tropicale, massicciamente praticata nei Paesi in via di sviluppo per fare spazio alle coltivazioni industriali intensive.

Inoltre, le pratiche biologiche interessano anche la distribuzione. Niente funghicidi o conservanti chimici ammessi durante il trasporto, per questo ci capita di acquistare banane bio con un elevato grado di maturazione, con la polpa marrone o la buccia leggermente annerita. Meno belle ma più saporite e soprattutto con la garanzia di trovare intatte tutte le proprietà organolettiche del frutto!
Equo + Bio: potrebbe essere questa la formula perfetta non solo per garantire equità sociale e rispetto dell’ambiente nei Paesi in via di sviluppo, ma anche per proteggere i consumatori dai veleni chimici troppo spesso usati nelle coltivazioni di frutti tropicali. Il cibo è medicina e, per fare davvero bene, deve essere imprescindibilmente sano.

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