A tavola

I furbetti dei prodotti alimentari IGP


Quando i marchi tutelano più le aziende dei consumatori

copertina igp - www.ersaf.lombardia.it

Siamo il Paese ad avere più eccellenze agroalimentari al mondo, con centinaia di prodotti a marchio DOP e IGP.

DOP sta per Denominazione di Origine Protetta, e perché un prodotto lo ottenga deve rispettare le regole del disciplinare di produzione, che in questo caso sono decisamente restrittive: tutte le fasi di produzione, dal reperimento delle materie prime alla trasformazione ed elaborazione, devono avvenire nell’area geografica limitata.

LogoDOP-www.brunelli.it

Foto: www.brunelli.it

Un gradino sotto troviamo l’IGP, che significa Indicazione Geografica Protetta; c’è sempre un disciplinare di produzione ma richiede che almeno una delle fasi di produzione avvenga in quella particolare area: perciò la materia prima può provenire da qualunque luogo, essere solo lavorata nella regione e ottenere il marchio.

igp-www.lifegate.it

Foto: www.lifegate:it

Secondo molti produttori l’IGP aiuterebbe solo il marketing e le vendite delle aziende, senza che siano obbligati a scegliere materie prime locali e di ottima qualità.

In Romagna non sono mancate le proteste quando un ravennate, proprietario di un chiosco, è stato multato per oltre 4.000 euro per il suo cartello “piadina romagnola”. La piadina, con l’attribuzione dell’IGP nel 2014, è diventata un marchio, ed utilizzare il suo nome senza autorizzazione è un reato! Il paradosso è che ora la vera piadina romagnola è diventata quella industriale, quella che rispetta il disciplinare di IGP, che non obbliga all’uso di materie prime locali; i produttori romagnoli, che usano farine di grano coltivato nei loro campi e che preparano la piadina secondo tradizioni di famiglia, non possono più utilizzare il nome “piadina romagnola” se non seguono regole e ricetta del disciplinare: l’IGP, invece che tutelarli, li ha messi in difficoltà.

piadina - www.nonsprecare.it

Foto: www.nonsprecare.it

 

Non va meglio a Modena, con il pregiato aceto balsamico: per il disciplinare la provenienza dell’uva è irrilevante, non va specificato se è coltivata in zona o fatta arrivare sottocosto da Paesi extra-europei. Anche la composizione viene penalizzata: se nei prodotti di alta qualità troviamo almeno il 60-70% di mosto cotto, per legge è sufficiente un 20%, aggiungendo poi del semplice aceto di vino, anche questo proveniente da un qualsiasi Paese del mondo, senza doverlo riportare in etichetta.
E poi, i veri produttori lasciano invecchiare l’aceto fino a 10 anni, in botti di legno particolari, mentre da disciplinare bastano solo 60 giorni!
Al supermercato troviamo bottiglie di aceto balsamico IGP a 3 euro che ci sembrano uguali a quelle del produttore tradizionale, che in realtà subisce una concorrenza sleale.

aceto balsamico - www.italia.it

Foto: www.italia.it

 

Anche diversi salumi hanno la certificazione IGP, per i quali non esiste nessun vincolo riguardo l’origine degli animali. La carne suina è la meno tracciabile: è obbligatorio scrivere in etichetta la provenienza solo per la carne fresca, ma non per quella trasformata. Escludendo il prosciutto di Parma DOP, in tutti gli altri casi avremo probabilmente a che fare con carni di allevamenti stranieri: secondo l’Istat almeno la metà di carne suina presente in Italia è di importazione estera, sempre più frequentemente delocalizzata verso l’est Europa (ne avevamo parlato in questo articolo). E così, come raccontato da un intermediario del settore, il prosciutto di Norcia è fatto con maiali che arrivano dalla Turchia, con tutti i rischi che comporta consumare prodotti che non rispettano i nostri standard di sicurezza.

maiali - www.iltamtam.it

Foto: www.iltamtam.it

Questi sono solo pochi esempi, ma dimostrano come a volte alcuni prodotti (e alcuni marchi) si nascondano dietro a una facciata di qualità e di made in Italy, che però è solo apparenza: il tutto a svantaggio dei produttori seri e nostro, che non portiamo in tavola il prodotto che crediamo.

Foto cover: www.ersaf.lombardia.it

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