Abbiamo tutti familiarizzato con lo smart working nei primi tempi della pandemia da Covid: grazie alle nuove tecnologie e alle connessioni a larga banda, in molti hanno potuto lavorare da remoto nei mesi in cui vigevano forti limitazioni alla circolazione. E oltre al vantaggio di poter continuare a essere produttivi anche in tempi così complessi, da subito lo smart working ha dimostrato un grande beneficio: la riduzione delle emissioni di gas climalteranti dovuti al traffico stradale e ai consumi energetici. Ora che progressivamente si è tornati alla realtà, e sempre più aziende hanno eliminato il lavoro da remoto fra le possibilità offerte ai dipendenti, emerge con insistenza una domanda: non sarebbe utile reintrodurlo, almeno parzialmente, per questioni ambientali?
È una domanda su cui ormai ci si interroga da tempo e che, ora, trova risposta in uno studio scientifico: permettere ai propri dipendenti di lavorare due giorni alla settimana da casa permette di tagliare le emissioni climalteranti anche del 29%. Un risparmio non da poco: perché, allora, non viene inserito stabilmente nelle politiche produttive delle grandi aziende?
Smart working e riduzione delle emissioni
Diciamoci la verità: per quanto la vita in ufficio possa essere più coinvolgente e appassionante, con uno scambio faccia a faccia con i propri colleghi e superiori, per molte professioni moderne non risulta essenziale. Per la gran parte dei lavori d’ufficio, ma anche delle occupazioni creative, avere a disposizione una connessione di buona qualità è un requisito più che sufficiente per portare a termine tutti i compiti quotidiani. E spesso anche in modo migliore, poiché un ambiente rilassante come quello domestico aiuta ad aumentare la produttività. E se si considerano i vantaggi ambientali dello smart working, perché non viene adottato come standard universale per certe professioni?
Uno studio condotto dalla Cornell University e da Microsoft, pubblicato sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences, ha evidenziato i benefici del lavoro da remoto in termini di emissioni di gas serra. I ricercatori hanno analizzato le emissioni tipiche di un campione rappresentativo di lavoratori negli Stati Uniti, a seconda delle giornate di lavoro a casa a loro concesse:
- smart working una volta a settimana: riduzione delle emissioni del 2%;
- smart working due volte alla settimana: taglio delle emissioni del 29%;
- smart working completo: riduzione delle emissioni del 54%.
In altre parole, concedendo ai lavoratori un’intera settimana da remoto, si dimezzerebbe la produzione di gas serra e di altri inquinanti: un fattore di cui beneficerebbero gli stessi lavoratori, soprattutto in termini di salute, che la collettività nel suo complesso dati gli innegabili vantaggi ambientali. Ma da dove arrivano questi tagli?
Smart working e costi ambientali di trasporto
Senza grandi sorprese, la principale riduzione di emissioni dovuta allo smart working deriva dal taglio dei costi ambientali di trasporto. Il dato è ovviamente da riferirsi agli Stati Uniti, dove al di fuori dei grandi centri urbani i mezzi pubblici sono abbastanza carenti, tanto da costringere la gran parte dei lavoratori a raggiungere l’ufficio in auto. In Europa il trasporto pubblico è decisamente più capillare e sfruttato, anche lontano dalle grandi metropoli, ma il ricorso all’auto per necessità professionali rimane ancora molto diffuso.
Non solo vantaggi in termini di emissioni, però: con meno auto circolanti, migliora sensibilmente il traffico cittadino, riportando la città stessa a misura delle persone. Proprio i tempi di pandemia hanno dimostrato come, alla riduzione del numero di quattro ruote circolanti, aumenta sensibilmente il ricorso a mezzi di trasporto più sostenibili, prima fra tutti la bicicletta.
Consumi di energia ridotti con il lavoro da remoto
Lo studio ha poi evidenziato quanto il lavoro da remoto sia utile per abbattere i consumi energetici, anche questi connessi alla produzione di grandi quantità di gas climalteranti, soprattutto in quei Paesi dove il mix energetico non vede un’enorme presenza di fonti rinnovabili.
Nel dettaglio, il risparmio energetico avviene soprattutto a livello aziendale, cioè delle strutture e dei servizi che gli uffici mettono a disposizione per la giornata lavorativa dei loro dipendenti. E non perché la parte di consumo relativa a computer e altre apparecchiature viene semplicemente trasferita dall’azienda alla casa del lavoratore, quanto per altre comodità che non si rendono più necessarie: illuminazione perenne degli spazi anche quando non in uso, riscaldamenti di ampie aree, spazi mensa, ascensori e molto altro. Semplificando, concedendo ai lavoratori due giorni a settimana in smart working, i singoli uffici riducono anche del 30% il loro fabbisogno energetico.
Lo smart working è a impatto zero?
Come sempre, vi è sempre il rovescio della medaglia. Spesso si sente dire che lo smart working è una modalità di lavoro “a impatto zero”, un concetto che viene spesso ripetuto con insistenza sui social network e anche da alcuni gruppi ambientalisti. In realtà, così non è: anche il lavoro da remoto ha il suo impatto ambientale, seppur minore rispetto a quello in ufficio.
“Le persone dicono: ‘Lavoro da casa, sono quindi a impatto zero’” – spiega Fengqi You, uno dei ricercatori della Cornell University – “Questo non è affatto vero”. Gli esperti hanno infatti rilevato che:
- con il lavoro remoto, i consumi energetici domestici ovviamente aumentano, sia in termini di richiesta di energia elettrica che di costi di riscaldamento – o raffrescamento, in estate – degli ambienti. Rimangono inferiori rispetto a quelli di un ufficio, anche fino al 30% in meno come evidenziato, ma non sono a zero;
- i ricercatori hanno evidenziato che chi lavora in remoto tende a trasferire le proprie emissioni su altri fronti, ad esempio le attività sociali, gli hobby e le vacanze. Anche in questo caso, le emissioni non sono paragonabili a quelle degli spostamenti per recarsi sul posto di lavoro, ma rimangono comunque presenti;
- parte dei consumi si trasferisce presso i grandi data center delle compagnie che offrono servizi internet, dalla connettività alle piattaforme di videoconferenza, e ciò determina un aumento importante della domanda di energia. È quindi sempre più necessario che i data center vengano alimentati tramite fonti rinnovabili.
Affinché vi sia un vantaggio davvero per tutti, gli autori suggeriscono che lo smart working rappresenta una delle tante misure che serve intraprendere per ridurre il peso ambientale delle attività lavorative. “Sebbene il lavoro da remoto mostri del grande potenziale nel ridurre l’impronta ecologica” – spiegano i ricercatori – “deve essere sempre valutato all’interno delle considerazioni sui pattern di pendolarismo, sul consumo energetico degli edifici, sul possesso di autoveicoli, sugli spostamenti non legati a questioni lavorative affinché possa davvero mostrare tutti i suoi benefici”.
In definitiva, con la pandemia ormai superata le aziende non dovrebbero rinunciare così facilmente allo smart working, ma dovrebbero offrirlo – quando possibile – ai dipendenti almeno due volte alla settimana. Allo stesso tempo, le istituzioni pubbliche dovrebbero lavorare di concerto con le stesse aziende per sviluppare modalità di lavoro più sostenibili, che tengano conto di tutte le variabili in gioco, dalla mobilità sostenibile all’efficientamento energetico degli edifici.
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