Esistono artisti che cercano di salvare il pianeta attraverso il loro messaggio. Non sempre sono messaggi facili da comprendere, non sono sempre a basso impatto ma trasudano amore
Negli anni Sessanta li chiamavano Earthworkers e hanno rappresentato la Land art, forse la prima corrente artistica che in maniera consapevole ha avuto l’ecologia e il destino del Pianeta come soggetto.
Dato il periodo e il fermento di quegli anni mi sembra quasi naturale che la Land art sia nata negli Stati Uniti, la nazione simbolo dell’Occidente, vero baluardo del capitalismo ma allo stesso tempo terra dei grandi spazi e dell’innovazione.
Artisti come Robert Smithson, Michael Heizer e Walter de Maria o il nostro Alberto Burri hanno cominciato a lavorare sul paesaggio e i materiali naturali, affascinati dai meccanismi della natura, dalla sua potenza in alcuni casi e dalla sua fragilità in altri.
Spiral Jetty (il molo a spirale) di Smithson è un esempio classico di quello che gli Earthworkers creavano sfruttando le caratteristiche dell’ambiente stesso. Un lungo molo a spirale che si getta nel Grande Lago Salato (Utah) che richiama la ciclicità della vita, i gorghi dell’acqua come i gusci delle chiocciole, un elemento che mirava a essere parte integrante del paesaggio.
Certo, i land artist amavano il pianeta e volevano in qualche modo “valorizzarlo”… Tuttavia mancavano spesso di senso della misura e di conoscenze ecologiche specifiche. In effetti a vedere le centinaia di pali metallici piantati da De Maria in una zona sperduta del New Mexico per realizzare il suo Lightning field (campo dei fulmini) qualche dubbio può venire. La spettacolare installazione attira i fulmini durante le tempeste o riflette i raggi del sole all’alba con mirabolanti giochi di luce. Rimane che tutti quei pali non sono certo a impatto zero…
Per non parlare di Heizer che spostava interi blocchi di granito pesanti decine di tonnellate a furia di bulldozer… Oppure di Burri e del suo Grande cretto, una colata di cemento che ricopre interamente i resti del paesino di Gellina distrutto dal terremoto del Belice (nella foto qui sopra). Insomma, avevano un modo tutto loro di concepire la bellezza del pianeta che oggi non mi sentirei di condividere.
Sicuramente più affine al mio modo di concepire l’ecologia e il “bello” è quello per esempio dei miei amici della Cracking Art (https://www.crackingartgroup.com/), corrente nata negli anni ’90 che utilizza plastica di riciclo per realizzare le sagome di meravigliosi animali colorati protagonisti di installazioni come quelle che potete vedere alla Darsena di Milano in questi tempi di Expo. Qui non si movimenta terra, non si scavano buchi né si cola il cemento. Semplicemente si usa un materiale morto come la plastica usata ridandogli vita in queste forme bellissime.
Mi ritrovo sicuramente più a mio agio con artisti che nel raccontare l’ambiente lo esaltano senza modificarlo brutalmente (quanta terra avrà dovuto spostare Smithson per il suo pur meraviglioso molo a spirale?!). Allora ben vengano le sculture con materiali naturali di Richard Long costruite sul posto con i materiali reperiti. Certo è pur sempre arte concettuale e può lasciare a volte un po’ perplessi.
Ma la mia “opera” di eco-art preferita rimangono le 7000 querce di Joseph Beuys: nel 1982 questo artista/documentarista tedesco ha piantato 7000 querce dentro e fuori la cittadina di Kassel (in Germania) per denunciarne lo stato ambientale. Ora, io non so se sia arte piantumare 7000 querce, ma se lo è comunque ben venga!
Il fatto che con il passare del tempo tutti abbiamo cominciato a parlare di ecologia, a qualunque livello lo dimostra la differenza tra i primi land artist e quelli attuali. Daniel McCormick e Mary O’Brien, per esempio, hanno cominciato a creare opere perfettamente integrate con la natura, anzi opere che possono essere riassorbite dall’ambiente stesso e nel frattempo possono fungere da rifugio per la fauna selvatica. Nella foto la struttura sul fiume Carson: ha sia lo scopo di regolare il flusso dell’acqua, sia quello di facilitare la nidificazione degli uccelli selvatici. Ed è completamente costruita con materiali trovati sul posto.
Come ha detto un famoso scrittore americano, Wendell Berry: L’unico mezzo con cui possiamo preservare la natura è la cultura. Nulla togliendo o aggiungendo a Berry, mi sentirei di dire che: la cultura non sarà forse l’unico mezzo, ma di sicuro senza conoscenza e un briciolo d’amore da parte di tutti il Pianeta potrebbe fare una brutta fine.
3 Comments
Alessandro
3 Luglio 2015 at 7:56Cara Tessa,
parli di Wendell Berry al passato come se fosse morto… per fortuna non è così. E’ vivo e vegeto e i suoi libri tradotti in italiano sono stupendi. Li conosci?
Ciao!
Tessa Gelisio
3 Luglio 2015 at 14:55Ops…. No
Alessandro
8 Luglio 2015 at 13:29Non li conosci??? Guarda, se leggi uno dei suoi romanzi pubblicati in Italia da Lindau (www.lindau.it), poi non potrai fare a meno di leggerli tutti. Se invece sei interessata al suo pensiero di ecologista e agricoltore puoi affidarti alla raccolta di saggi Mangiare è un atto agricolo. Ti faccio anche un regalo… Guarda questo video: https://youtu.be/KlW-4Vk8fMw
Ciao ciao