Sono passate ormai diverse settimane dalla COP26 di Glasgow, la Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici conclusasi lo scorso 12 novembre alla presenza di oltre 190 Paesi partecipanti. Un appuntamento che, almeno negli intenti, si era prefissato di affrontare con più decisione la crisi climatica in atto, introducendo delle misure più stringenti rispetto a quelle già siglate con i precedenti Accordi di Parigi. Degli obiettivi forse raggiunti solo in parte, considerando come a livello mediatico abbiano avuto maggiormente rilevanza le dure parole di Greta Thunberg – pronta a sottolineare come gli impegni presi siano troppo vaghi, addirittura “peggio del bla bla bla” – che non la firma del Glasgow Climate Pact.
Superate le polemiche dei primi giorni, è però necessario farsi delle domande “a sangue freddo” per capire se gli esiti dell’incontro scozzese possano effettivamente essere positivi per la lotta al cambiamento climatico. Per questo, ho chiesto un parere ad Angelo Bonelli – co-portavoce nazionale di Europa Verde – e a Ermete Realacci, Presidente della Fondazione Symbola.
La COP26 di Glasgow in pillole
Prima di entrare nel merito delle questioni rimaste aperte con gli Accordi di Glasgow, è necessario fare un passo indietro. Innanzitutto per spiegare perché sulla COP26 c’erano così tante aspettative, rispetto alle precedenti Conferenze sul Clima.
Possiamo considerare la COP26 come una sorta di estensione della COP21, quella divenuta famosa nel 2015 per la ratifica degli ormai ben conosciuti Accordi di Parigi. Proprio durante la conferenza parigina si era stabilito che, a cadenza quinquennale, i Paesi partecipanti avrebbero dovuto proporre una verifica degli impegni sottoscritti, con un “meccanismo al rialzo”.
Partendo da questo presupposto, la Conferenza si è concentrata su quattro obiettivi principali:
- La mitigazione dei cambiamenti climatici, con obiettivi più stringenti sul fronte delle emissioni;
- La gestione del cambiamento climatico, con misure di sostegno immediato per i Paesi già colpiti da stravolgimenti naturali, economici e sociali;
- Il finanziamento degli interventi necessari per proteggere il clima;
- La collaborazione fra i vari Paesi partecipanti, forse anche per evitare la fuga di nazioni importanti – come avvenuto per gli Stati Uniti durante la Presidenza Trump – affinché la salvaguardia del clima sia un obiettivo comune.
Glasgow Climate Pact: quali impegni sono stati presi
La COP26 ha portato alla firma del Glasgow Climate Pact, noto anche come Patto per il Clima di Glasgow. Come spesso accade, non è però stato semplice mettere d’accordo i vari Paesi partecipanti e, forse per questo, la Conferenza non sembra aver pienamente soddisfatto le aspettative di chi si attendeva azioni più concrete. Ma cosa è stato ratificato?
Fra i tanti obiettivi sottoscritti, i più importanti riguardano:
- Temperatura: il limite di crescita della temperatura media entro il 2050 è stato fissato a 1.5 gradi, un lieve miglioramento rispetto agli Accordi di Parigi, che vedevano 2 gradi come obiettivo fattibile e 1.5 come ottimale;
- Decarbonizzazione: entro il 2030 si dovrà operare un taglio del 45% nelle emissioni di CO2 rispetto ai livelli del 2010. 25 Paesi – tra cui l’Italia – si sono impegnati a limitare progressivamente il finanziamento di nuove centrali estere a carbone, 23 Stati non investiranno nemmeno in centrali all’interno dei confini nazionali. Sono inoltre state fissate le regole per il Mercato Globale delle Emissioni di Carbonio e ratificati obiettivi anche per altri tipi di emissioni, come la riduzione del 30% di quelle dovute al metano. L’obiettivo relativo al metano non è stato però approvato da Cina, India e Russia;
- Deforestazione: 134 Paesi si sono impegnati a limitare la deforestazione entro il 2030, con investimenti iniziali pari a 19.2 miliardi di dollari;
- Sostegno: le Nazioni economicamente avvantaggiate si sono dette favorevoli a sostenere i Paesi in via di sviluppo, con investimenti – tuttavia non definiti – per colmare il gap tecnologico e proteggere la biodiversità locale.
La COP26 non è però riuscita nell’intento di definire date e regole per il fondo da 100 miliardi di dollari da destinare ai Paesi più poveri, che di fatto rimane in sospeso, né a istituire specifiche soluzioni per ristorare le perdite economiche dovute proprio ai cambiamenti climatici.
Accordi di Glasgow: come è andata?
La firma del Glasgow Climate Pact è stata accolta senza troppo entusiasmo dai gruppi ambientalisti e da molti addetti ai lavori, convinti che gli impegni presi siano “annacquati” rispetto alle reali necessità del Pianeta.
“Io penso non sia andata assolutamente bene – spiega Angelo Bonelli – perché manca la consapevolezza e quindi l’adozione di provvedimenti vincolanti che partano dal presupposto che abbiamo poco tempo per agire, secondo quanto ci dice la scienza. Ad esempio, quell’accordo che è stato portato come qualcosa di eccezionale, lo stop alla deforestazione entro il 2030, in realtà è stato più un elemento di comunicazione di marketing perché non solo non è vincolante, ma non fa nemmeno i conti con i provvedimenti già adottati da alcuni Paesi che stanno procedendo a ritmi incredibili con la deforestazione. L’Indonesia procede a un ritmo impressionante di distruzione delle torbiere per far posto alle piantagioni di palma, il 75-80% delle torbiere e delle foreste è stato distrutto. Il Brasile procede al ritmo di 13.000 km quadrati di deforestazione, il Presidente Bolsonaro ha fatto approvare una legge che consente l’espulsione degli indios per sfruttare dal punto di vista minerario la foresta. È un accordo che arriva tardi, ipocrita, perché a questo ritmo di foreste non ne avremo più nel 2030”.
“Penso che ci sia una cosa molto importante – aggiunge Realacci – cioè che il combinato disposto, sia del G20 e soprattutto dell’Accordo di Glasgow, ha spazzato via il fronte negazionista sui cambiamenti climatici. […] Questo lo ritengo un risultato positivo, dopodiché devo dire che – oltre a questo – non avevo enormi aspettative, perché so che i cambiamenti sono ovviamente impegnativi e il mondo ha velocità molto diverse. […] Non bisogna essere superficiali: ha ragione Greta a sottolineare come spesso ci siano tante parole e pochi fatti, però le parole servono, mettere d’accordo tanti Paesi senza ‘fare una guerra’ non è una cosa così semplice”
Decarbonizzazione e sostegno ai Paesi meno ricchi: cosa è andato storto?
Fra le questioni sollevate dalla firma del Glasgow Climate Pact, due punti in particolare hanno sollevato i dubbi degli esperti. Il primo riguarda il piano di decarbonizzazione, che non solo non elimina i combustibili fossili ma non appare nemmeno vincolante. Il secondo invece coinvolge i Paesi in via di sviluppo che, ancora una volta, non sapranno quando e se arriveranno gli aiuti a loro già promessi nelle precedenti COP.
L’Accordo prevede una riduzione delle emissioni da carbonio del 45% entro il 2030 e il raggiungimento dell’obiettivo net zero entro il 2050, allo scopo di scongiurare l’aumento della temperatura oltre 1.5 gradi. Eppure l’intesa non sembra imporre particolari vincoli. “L’intesa finale letta nella plenaria – spiega Bonelli – non prevede un accordo vincolante per l’uscita dalle fonti fossili e, quindi, la completa decarbonizzazione entro il 2050. […] C’è già chi parla di 2.7 gradi entro il 2050 anziché 1.5 gradi. Il report dello scorso luglio dell’IPCC è drammatico. Lo scienziato brasiliano Carlos Nobre – premio Nobel per la Pace, premiato con gli altri scienziati dell’IPCC – sostiene che a questo ritmo l’Amazzonia nei prossimi 20 anni si trasformerà in una zona semi-arida. Già con questi accordi che non sono vincolanti, siamo fuori tempo per rimanere entro gli 1.5 gradi”.
In uno simile scenario, appare quindi addirittura più insolito che non si sia stabilita una precisa roadmap per l’aiuto ai Paesi in via di Sviluppo, molti dei quali ancora fortemente legati ai combustibili fossili. “Come aiutiamo i Paesi poveri – prosegue Bonelli – che fino a oggi non hanno potuto usufruire di quei benefici del cosiddetto avanzamento tecnologico e industriale, per consentire loro di superare questo gap tecnologico? Ebbene, i famosi 100 miliardi di dollari l’anno previsti dalle precedenti COP non sono stati dati e, in più, sono scomparsi dall’accordo finale. Hanno trovato una forma più dilazionata.”
“C’è un problema certamente importante – sottolinea Realacci – che è quello del contributo ai Paesi più poveri, più esposti [ai cambiamenti climatici, ndr]. 100 miliardi… li devi dare, come li dai, quando li dai: la partita è di nuovo di grande delicatezza. A me quello che colpisce sono gli effetti che, in tanti Paesi poveri, si hanno per i cambiamenti climatici. Pensiamo alla vicenda del lago Ciad: era di 25.000 km quadrati, grande più della Lombardia, ma attualmente è meno di 2.000 km quadrati, più piccolo della Val d’Aosta. Intorno al lago Ciad ci sono quattro Paesi – Niger, Nigeria, Camerun e appunto il Ciad: l’area della Nigeria dove è più forte Boko Haram è proprio quella che confina a nord con il lago Ciad. È chiaro che quando passi da 25.000 km quadrati a 2.000, pesca, agricoltura e via dicendo creano delle tensioni formidabili, quindi flussi migratori e problemi interni. Ci vuole perciò una spinta affinché quei soldi vengano dati”.
Il ruolo dell’Europa dopo la COP26
Dalla Conferenza di Glasgow è tuttavia emerso un nuovo ruolo dell’Europa all’interno degli equilibri mondiali per la gestione del clima o, forse, sarebbe più adatto parlare di un inedito suo posizionamento. Dalla definizione di una Tassonomia Verde per il futuro energetico del Vecchio Continente, passando per la cosiddetta “carbon tax di frontiera”, l’Europa sembra stia tracciando la via per gli altri Paesi.
“Qualcosa è cambiato – spiega Realacci – perché dopo gli Accordi di Parigi del 2015 c’è stato il trauma della Brexit. E la risposta a questo trauma è stata, sin dall’inizio della Commissione Von der Leyen, un forte rilancio sul Green Deal. Una spinta che all’inizio della pandemia era stata da molti messa in discussione: qualcuno temeva – e altri speravano, probabilmente – che la pandemia facesse passare tutto in secondo piano. E invece l’Europa non ha rallentato ma ha accelerato. Ha investito tanto non solo sulla solidarietà interna, ma anche sul bilancio ordinario, in tre direzioni: coesione, transizione verde e digitale. E la transizione verde fa la parte del leone. […] L’Europa sembra aver trovato nella transizione verde una nuova missione: un nuovo posizionamento. Nel cozzo che c’è tra le grandi placche tettoniche del mondo – Cina, Stati Uniti, Russia – l’Europa dice: ‘Sapete che c’è, ragazzi? Io vado in quella direzione e ci vado annunciando una misura, come quella della Border Carbon Adjustment, che causerà molti scontri’. In altre parole, i prodotti di alcune categorie che entrano nell’Unione Europea e che non rispettano le nostre emissioni avranno una tassa. Dal 2026 ci sarà quindi una fiscalità sui prodotti in ingresso. Questa è una misura potente che in qualche modo favorirà il reshoring, il rientro in casa delle produzioni che si facevano all’estero”.
In definitiva, gli Accordi di Glasgow rappresentano un primo tentativo di affrontare la crisi climatica con misure più rigorose ma, nei fatti, si tratta di passi ancora timidi rispetto alle reali necessità del Pianeta. Emerge però un ruolo di guida dell’Europa, che si porrà al centro delle mediazioni internazionali indicando la via per un futuro più sostenibile, ma molto deve essere fatto. Per chiudere, come sottolinea Realacci, bisogna ricordare le parole di Langer: “La conversione ecologica sarà vincente quando sarà socialmente desiderabile”. Una partita che non offre solo valori, ma anche economia e posti di lavoro.
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