I desalinizzatori possono davvero rappresentare una risorsa di punta per affrontare la sempre più frequente siccità? E qual è il loro impatto ambientale? Sono queste le domande che ormai da molto tempo mi pongo, nel notare quanto il tema dei desalinizzatori venga proposto come panacea di tutti i mali, quando si affrontano periodi di lunga carenza idrica. Eppure, per quanto queste tecnologie appaiano oggi decisamente mature, vi è anche un rovescio della medaglia da non ignorare. I danni ambientali, ad esempio, ma anche gli elevati costi.
Si tratta perciò di una questione che vale la pena approfondire, non fermandosi semplicemente all’indubbia utilità di questi impianti, ma anche sulle conseguenze che spesso passano in sordina. Analizziamole insieme.
Desalinizzatori: cosa sono e come funzionano
Con il termine desalinizzatori – noti anche come dissalatori – si indicano degli speciali impianti per la trasformazione dell’acqua marina in acqua potabile. In altre parole, all’interno di queste grandi strutture si procede alla rimozione della porzione salina dell’acqua, affinché risulti idonea per il consumo e le necessità igieniche umane. Ma come funzionano?
Sono molte le tecnologie oggi a disposizione per rendere potabile l’acqua del mare, di cui tre le più diffuse:
- distillazione: tramite un processo termico, l’acqua viene fatta evaporare in apposite camere. Una volta raggiunto lo stato gassoso, gran parte dei minerali – compreso il sale – si separano dall’acqua: il vapore viene quindi indirizzato in apposite condutture che, tramite raffreddamento, ne favoriscono il ritorno allo stato liquido;
- osmosi inversa: tramite delle pompe ad altissima pressione, l’acqua attraversa delle speciali membrane semi-impermeabili, in grado di trattenere i sali;
- elettrodialisi: sfruttando delle speciali membrane caricate elettricamente, il sale viene forzatamente separato dall’acqua marina, affinché diventi potabile.
A oggi, la maggior parte degli impianti presenti a livello mondiale sfrutta la distillazione termica per ottenere acqua dolce dal mare, mentre una porzione inferiore è destinata a strutture a osmosi inversa. L’elettrodialisi è ancora relativamente nuova e, sebbene si riveli già molto promettente, non risulta ancora particolarmente diffusa.
Quanta acqua dolce produce un dissalatore
Sono più di 20.000 i dissalatori in funzione in tutto il mondo, capaci di produrre acqua potabile sufficiente per le necessità di 300 milioni di persone. Come spiegato dall’ONU, in cifre questa capacità si traduce nella produzione quotidiana di 95 miliardi di litri d’acqua, praticamente la metà della portata media delle cascate del Niagara.
In linea generale, un singolo impianto è in grado di produrre dai 10.000 ai 250.000 metri cubi d’acqua al giorno, a seconda delle dimensioni. Il record è però di 600.000 metri cubi d’acqua giornalieri, raggiunti dal mega-impianto Rabigh IWP in Arabia Saudita. Secondo la FAO, il bisogno medio di acqua dolce per individuo è di 628 metri cubi l’anno.
I costi della dissalazione
Come facile intuire, non si tratta tuttavia di acqua a buon mercato. La costruzione degli impianti richiede dai due ai cinque anni, dalla progettazione al primo litro di acqua prodotto, con costi nell’ordine del miliardo di euro. Strutture particolarmente grandi e avanzate, come quelle di recente costruzione in Arabia Saudita, possono arrivare a costare 3.5 miliardi di euro.
Gli investimenti di costruzione, uniti ai consumi energetici necessari per il funzionamento delle strutture, portano l’acqua potabile a costare dai 3 ai 5 euro al metro cubo, più del doppio rispetto ai comuni canali di approvvigionamento.
Svantaggi e conseguenze ambientali dei desalinizzatori
Il ricorso ai desalinizzatori ha degli indubbi vantaggi, primo fra tutti la possibilità di ottenere acqua potabile anche in luoghi non attraversati da grandi corsi d’acqua o privi di sorgenti naturali, come possono essere le aree più desertiche del Paese. Non è infatti un caso che i principali impianti si trovino tutti in Medio Oriente dove, date le condizioni climatiche, l’acqua è un bene assai raro. Ancora, si tratta di una risorsa da prendere in debita considerazione anche per affrontare gli effetti dei cambiamenti climatici che, dato l’aumento delle temperature globali, stanno portando alla scomparsa delle grandi “borracce” di acqua dolce a livello mondiale: i ghiacciai. Un simile approccio permette di rendere meno gravosi i periodi di lunga siccità e, ancora, di ridurre – almeno parzialmente – gli effetti delle sempre più frequenti crisi idriche.
Eppure, come accennavo in apertura, spesso non si parla delle conseguenze negative di questo approccio.
Alti consumi energetici per dissalare l’acqua
La separazione della porzione salina dall’acqua di mare è un processo che richiede grandi quantità di energia, spesso indipendentemente dalla tecnologia impiegata. A seconda dell’età dell’impianto e della sua grandezza, la distillazione termica richiede circa 6 kWh di energia elettrica per ogni metro cubo di acqua prodotta, l’osmosi circa 3 kWh.
Un consumo energetico enorme, se si considera appunto una produzione giornaliera dai 10.000 ai 250.000 metri cubi d’acqua per impianto, con tutte le conseguenze del caso in termini di emissioni con gli attuali mix energetici mondiali, dove la porzione di fonti rinnovabili non è ancora maggioritaria. In altre parole, si ottiene acqua potabile, ma si rilasciano grandi quantità di CO2 in atmosfera che non fanno altro che accelerare quei processi di scarsità idrica che proprio i desalinizzatori cercano di calmierare.
Desalinizzatori e salamoia, un grave impatto sugli ecosistemi
La trasformazione di acqua salata in acqua dolce non è poi esente da scarti e rifiuti, anzi produce un gran numero di scorie. Me ne aveva già parlato Stefano Mariani, ricercatore ISPRA, nel corso di un’intervista la scorsa primavera: la dissalazione genera salamoia, ovvero un concentrato di sali di difficile smaltimento.
Per ogni litro d’acqua prodotta, ne rimangono 1,5 litri di salamoia. Purtroppo, nella maggior parte dei casi questi residui vengono nuovamente rigettati in mare, con un grandissimo impatto sugli ecosistemi: la salamoia non solo aumenta la concentrazione di sale nelle aree dove viene gettata, ma anche contribuisce alla crescita delle temperature marine. Il risultato è una rapida moria di specie ittiche e vegetali nelle aree di scarico. Se si considera che gli impianti oggi attivi nel mondo producono 142 milioni di metri cubi di salamoia al giorno, le conseguenze su ecosistemi e biodiversità sono a dir poco devastanti. In altre parole, si “risolve” il problema della carenza idrica generandone un altro, andando a inasprire quel processo di cambiamento climatico che si vorrebbe invece frenare.
Desalinizzatori: perché in Italia sono poco diffusi?
A differenza della vicina Spagna, che può contare su oltre 700 desalinizzatori sparsi lungo tutte le sue coste, l’Italia non ha puntato granché sulla dissalazione. Sono circa 40 gli impianti oggi esistenti, tutti di medie e piccole dimensioni, molti dei quali non attivi o non pienamente funzionanti, con una produzione totale di meno di 2.000 metri cubi d’acqua dolce al giorno.
Questa scarsa produzione è dovuta sia a lentezze di implementazione e burocratiche, ma anche da specifiche normative. La Legge Salvamare del 2022, infatti, ha limitato il ricorso ai desalinizzatori solo in casi eccezionali, come le emergenze idriche, proprio per evitare che grandi quantità di salamoie vengano gettate in mare, danneggiando la biodiversità.
E cosa fare, allora? Sulla carta, l’Italia rimane un Paese dalle buone risorse idriche, ma anche dagli ampi sprechi. La rete di distribuzione nazionale perde più del 40% dell’acqua potabile disponibile, mentre si investe poco sulla costruzione di bacini e invasi di raccolta, che potrebbero tamponare le emergenze idriche senza troppo sconvolgere il territorio, i corsi d’acqua e senza grandi conseguenze sui mari. Come sempre, la priorità è la cura delle cause, ovvero contrastare i cambiamenti climatici: queste soluzioni, per quanto utili, presentano sempre un trade-off a livello ambientale, con conseguenze da non sottovalutare.
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