A giudicare dalle dichiarazioni spesso altisonanti di grandi multinazionali, gruppi produttivi e lobby di investitori ma anche piccole aziende, il mondo in cui viviamo potrebbe apparirci tutto fuorché in pericolo. D’altronde, siamo continuamente bombardati da messaggi che ci ricordano quanto quel prodotto sia sostenibile, quanto quella azienda abbia investito per rendere il mondo un posto più verde. Eppure, se vi fosse davvero tutto questo impegno, i dati che la scienza ci mostra non sarebbero così terrorizzanti: il Pianeta sta sempre peggio e, nonostante i buoni propositi di molti, siamo ancora ben lontani dal riuscire a ridurre l’aumento di emissioni nocive e scongiurare l’aumento di 1.5 gradi della temperatura entro il 2050. E sto parlando di una sola delle tante problematiche ambientali: il cambiamento climatico!
E allora perché, nonostante gli scarsi risultati che l’evidenza empirica ci mostra, queste realtà ci ricordano di essere le migliori amiche dell’ambiente? Si tratta del cosiddetto greenwashing, un fenomeno che sta prendendo sempre più piede.
Cosa è il greenwashing
Il concetto di greenwashing è stato elaborato verso la fine degli anni ‘70, anche se è nei successivi anni ‘80 che ha trovato la sua prima definizione. Con questo neologismo inglese – tramutato da “whitewashing”, ovvero “imbiancare, passare una mano di bianco, nascondere” – si indica quello che potremmo definire come ambientalismo di facciata. In altre parole, si tratta della consuetudine molto diffusa di enfatizzare le qualità positive sotto il profilo ecologico di un prodotto, di un’azienda oppure di un processo produttivo, nascondendone però tutte le criticità proprio dal punto di vista ambientale.
Come già accennato, il termine ha cominciato a circolare negli ambienti ecologisti a partire dagli anni ‘80, in particolare grazie alle opere di sensibilizzazione dell’ambientalista statunitense Jay Westerveld. L’attivista denunciò infatti come diverse catene alberghiere a stelle e strisce avessero iniziato ad appellarsi alle necessità dell’ambiente nel giustificare la scelta di ridurre i cambi di biancheria nelle camere degli hotel. “Si inquinava meno” e “si usavano meno detergenti nocivi” nel limitare i lavaggi di lenzuola e asciugamani, spiegavano i proprietari dei resort. Eppure, fra di loro non vi era una precisa consapevolezza ambientale: bensì, sfruttando il sempre più diffuso sentimento ecologista nella popolazione, facevano leva sull’inquinamento per giustificare invece una scelta che aveva unicamente a che fare con i costi economici delle loro strutture. Però in questo caso, indipendentemente dal fine, si raggiungevano due obiettivi: si sensibilizzava le persone e si riducevano i lavaggi con i conseguenti consumi e inquinamento.
Con la crescita repentina della sensibilità ambientale, in particolare nelle nuove generazioni a cavallo fra gli anni ‘90 e i primi anni del 2000, il greenwashing ha praticamente permeato qualsiasi comunicazione sui media. Oggi l’enfatizzazione delle supposte proprietà ecologiche di un prodotto, o di un’azienda, ha raggiunto livelli tali che risulta difficile distinguere quali realtà siano davvero attente all’ambiente e quali, invece, approfittano del tema per conquistare bacini maggiori di clienti. Tant’è che negli ultimi anni non si parla più di greenwashing in senso stretto, ma di vero e proprio greenmarketing: la maggior parte delle strategie di comunicazione si fondano sull’enfatizzazione delle responsabilità ambientali di brand e prodotti, anche quando queste non hanno un reale impatto in termini ecologici.
Tutto è sostenibile, anche quando non lo è
Oggi tutto è sostenibile. O, almeno, così dicono le campagne di comunicazione di grandi gruppi commerciali, multinazionali ed enti governativi sparsi in tutto il mondo. Quello della “sostenibilità” è purtroppo uno dei cavalli di battaglia del greenwashing, poiché il termine ormai è entrato nell’immaginario comune. Ma siamo davvero sicuri che quel che viene spacciato come sostenibile non lo sia solo a parole, ma anche nei fatti?
Il problema di fondo sta anche nell’uso a sproposito di questo termine. A conti fatti, quello della sostenibilità è un “concetto” ed è difficilmente misurabile, poiché si tratta di un percorso, di uno stile: un impegno per sfruttare le risorse della Terra in modo oculato, affinché si possano garantire alle future generazioni l’accesso alle medesime risorse e a un’ambiente come lo abbiamo trovato noi.
Possiamo ad esempio definire come sostenibile un tipo di pesca che, impegnandosi a proteggere le risorse ittiche, mantiene intatta nel tempo la popolazione delle specie marine scelte dalla sua attività. Ma possiamo dire lo stesso di un’azienda che si vanta di usare plastica riciclata, ma non fa nulla per ridurre le sue emissioni di gas nocivi durante le fasi di produzione?
L’esempio classico che gli esperti portano per sottolineare l’uso troppo superficiale del termine sostenibilità è quello del settore auto. Negli ultimi anni sono infatti sorte moltissime polemiche per le campagne pubblicitarie di varie case automobilistiche per i loro modelli ibridi, definiti come “sostenibili” e “verdi”. Certo, guidare un’auto ibrida garantisce dei costi ambientali mediamente ridotti rispetto alle classiche diesel o benzina ma, avvalendosi comunque di combustibili fossili per il suo funzionamento, non la si può definire sostenibile tout-court. La sostenibilità sarebbe un parametro impossibile da calcolare sul singolo mezzo, si potrebbe calcolare la sostenibilità del settore auto, nell’insieme delle emissioni gas climalteranti emesse dall’uomo ma solo se queste fossero a zero emissioni nette. Insomma, roba complicata. Sarebbe allora il caso di utilizzare questo termine con più attenzione e ragionevolezza, parlando di prodotti e servizi come più sostenibili – se presentano alcuni elementi a impatto ambientale minore rispetto alla media di quelli presenti sul mercato – che come panacea di tutti i mali.
L’attenzione all’ambiente comunicata in maniera fuorviante
Sia chiaro, ogni azione utile ad aiutare all’ambiente è sempre benvenuta. Ma è altrettanto necessario valutarne l’effettivo impatto e, soprattutto, scavare a fondo per capire se vi siano degli altri ambiti dove una simile attenzione ambientale non è parimenti concessa. D’altronde, il problema di fondo del greenwashing è proprio questo: quello di comunicare un’attenzione al Pianeta in modo del tutto fuorviante.
Pensiamo alle varie aziende che, soprattutto negli ultimi tempi, fanno a gara per comunicare di aver avviato dei processi di tutela ambientale. Il claim più gettonato è quello della riforestazione: di tanto in tanto, spunta un gruppo produttivo che ci comunica in pompa magna di aver piantato qualche ettaro di nuovi alberi. Un’azione certamente encomiabile, ma sufficiente per definire tale realtà produttiva come amica dell’ambiente? Ovviamente no, poiché se all’opera di riforestazione non corrispondono altre azioni mirate per calmierare l’inquinamento di produzione, siamo di fronte solo ad ambientalismo di facciata. Piantare un ettaro di pini non basta, se poi la mia azienda non è in grado di smaltire correttamente rifiuti speciali, non adotta misure per limitare gli sprechi o non incentiva la produzione locale, favorendo delocalizzazioni in luoghi lontanissimi da quelli di consumo.
In altre parole, essere più sostenibili non significa puntare i riflettori sull’unico aspetto produttivo effettivamente pensato in un’ottica ambientale, nascondendo invece sotto al tappeto tutte quelle pratiche inquinanti che potrebbero generare dubbi nell’opinione pubblica.
Ma come riconoscere il greenwashing?
Ma quali armi possiede il consumatore per capire se la comunicazione a lui rivolta nasca effettivamente da una precisa attenzione ambientale o, al contrario, sia una mera strategia per convincerlo ad acquistare determinati prodotti o servizi? Insomma, come si riconosce e identifica il greenwashing?
Tra i tanti elementi che possono sollevare dubbi, è utile tenere in considerazione:
- comunicazione troppo enfatica o scarsamente verificabile: quanto un’azienda lancia campagne pubblicitarie troppo enfatiche sul tema della sostenibilità, magari su temi che dovrebbero stimolare il comune buon senso, dovrebbe suonare un campanello d’allarme. Ad esempio, uno spot che ci comunica che la confezione del tal prodotto “da oggi usa meno plastica”, senza specificare di quanto sia questa riduzione e quali alternative vengano impiegate alla stessa plastica, non dovrebbe essere presa troppo sul serio, inoltre, ormai quello che fa la differenza è zero plastica, non meno;
- Rincorsa disperata ai giovani consumatori: non è un segreto, le giovani generazioni – in particolare la Gen Z, ma anche i Millennial – sono sempre più attenti all’ambiente e cercano di orientare le loro scelte di consumo in questa direzione. Avrete sicuramente notato, soprattutto nell’ultimo biennio, come molte aziende abbiano cambiato completamente il loro stile comunicativo proprio per cercare di rincorrere questa fascia di consumatori. E così ci troviamo ad esempio con diverse aziende energetiche che, pur essendo da sempre conosciute per il loro enorme ricorso a fonti fossili, ci mostrano giovani e sorridenti ragazzi, pronti a correre tra prati fioriti nei pressi di parchi eolici. Si tratta di vero e proprio greenmarketing, ovvero dell’enfasi su una produzione più sostenibile – l’energia rinnovabile, ad esempio – allo scopo di attirare consumatori molti attenti, senza però specificare come tale produzione riguardi una minuscola percentuale delle attività dell’azienda;
- Uso fuorviante delle parole: infine, attenzione anche all’uso fuorviante delle parole. Come già visto, dire che un prodotto è “sostenibile” non ha molto senso, semmai può essere “più sostenibile”. Meglio diffidare anche quando si usano termini come “verde”, “amico della natura”, “ecologico”, utilizzati senza specificare come, nei fatti, l’azienda stia agendo
E ricordiamoci uno degli elementi chiave per capire se ci troviamo di fronte a un’opera ben confezionata di greenwashing o, invece, a una realtà effettivamente attenta all’ambiente. Le aziende che hanno davvero investito per essere più sostenibili non hanno bisogno di ricordarlo a ogni piè sospinto, né di bombardare i consumatori con campagne pubblicitarie aggressive. Il loro percorso parla da sé: una realtà impegnata non riduce mai la sua attenzione al Pianeta e, soprattutto, estende questa filosofia a tutti i suoi ambiti di attività.
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