E se il basso prezzo del cibo industriale non fosse così basso come pensiamo? Quello che non finisce nello scontrino ma paghiamo lo stesso, senza saperlo.
Forse è giunto il momento di smettere di chiedersi perché il cibo di qualità costa tanto ma di domandarsi perché quello industriale costa così poco e se veramente costa così poco. Partiamo da un esempio pratico: i plumcake. Una nota marca alimentare li vende in confezioni da 10 pezzi al prezzo di circa 2,25 euro per 330 gr di prodotto (mediamente, salvo promozioni) quindi a circa 6,80 euro al kg. Ho scovato in giro una ricetta che permette di riprodurre nel sapore e nell’aspetto lo stesso plumcake in casa. In un’oretta di lavoro si ottiene un plumcake di circa 250gr. Per farlo si utilizzano ingredienti di buona qualità e facile reperibilità come farina 00, olio extravergine, qualche uovo di gallina allevata a terra e yogurt magro, zucchero e poco altro. La spesa si aggira attorno ai 3 euro con una differenza di quasi tre euro al kg rispetto a quello industriale. Vi assicuro che l’aspetto e il sapore sono quasi identici. Eppure ci sono quasi 3 euro di differenza al chilogrammo e non ho considerato il tempo che ho impiegato (che ha un valore) e l’energia che ho usato sottoforma di gas ed elettricità! Mica ciccioli se considerate che in quel prezzo è compreso anche l’impacchettamento e la distribuzione del prodotto.
Ma è il mio plumcake a costare troppo o quelli industriali a costare troppo poco? Dov’è il trucco? L’economia di scala basta a giustificare la differenza? In effetti a fronte di mostruosi investimenti, un’industria alimentare pianifica di produrre milioni di pezzi di un prodotto e di guadagnare sulla quantità immessa sul mercato: il numero permette di tenere il prezzo basso. Inoltre, come è facile intuire, per mantenere il prezzo basso bisogna cercare enormi compromessi tra qualità e costo. Vi siete mai chiesti perché l’olio di palma è ovunque? Perché 4 volte meno del burro per esempio e otto rispetto a un olio extravergine di media qualità. Questo lo rende l’ingrediente ideale: a basso costo e disponibile in quantità immani. Il principio vale per ogni ingrediente.
Se ci mettessimo in cucina e rifacessimo lo stesso plumcake dieci volte di seguito è probabile che riscontreremmo piccole differenze tra un plumcake e l’altro, nell’impasto, nell’aspetto, nel sapore. Ma questo lusso un’industria alimentare non se lo può permettere. Tutto deve essere standardizzato perché ogni consumatore che acquista il prodotto deve avere la stessa esperienza di consumo. Ma come si fa a standardizzare la produzione? I prodotti non sono tutti identici semplicemente perché le macchine evitano l’errore umano nell’impastare, pesare o cuocere gli ingredienti. Sono proprio gli ingredienti che prima di tutto devono essere standardizzati. Questi due principi, quantità e qualità, giustificano il prezzo sulla confezione. Ma non è il prezzo reale, non è il vero costo. La produzione di scala ha dei costi esterni che non vengono considerati nel prezzo dei prodotti che finiscono nel nostro carrello.
Per produrre milioni di plumcake bisogna prima di tutto raccogliere migliaia di tonnellate di tutti gli ingredienti e spesso questi ingredienti arrivano da ogni angolo del pianeta. Gli agricoltori e allevatori che forniscono gli ingredienti per garantirsi le commesse da parte delle grandi firme seguono le linee imposte dalle grandi industrie: volete venderci il vostro raccolto, la vostra farina, e le vostre uova? Bene, allora dovete coltivare questo tipo di grano in queste condizioni, allevare galline di questa specie e in queste condizioni… Ed ecco il primo costo: si perde biodiversità. Nell’ultimo secolo, per esempio, abbiamo perso il 75% delle specie coltivate proprio perché si è puntato tutto su quelle più appetibili e vendibili in grandi volumi nel contesto della distribuzione industriale del cibo. E’ anche a causa della produzione industriale di cibo se ora ci troviamo a creare arche di semi di piante coltivabili prossime a sparire dai campi di tutto il mondo (link all’articolo del blog).
Secondo costo nascosto: l’emissione di gas serra, l’impatto del consumo energetico, degli scarti industriali, la produzione del packaging con carta e plastica, il trasporto di ingredienti e prodotti su ruota, rotaia e aereo… insomma, l’impatto ambientale della produzione non rientra nel prezzo ma tocca le nostre tasche. I cambiamenti climatici modificano l’ambiente in maniera anche violenta, e gli effetti dell’inquinamento si vedono sulla sulla salute: la maggior parte di tutto questo viene pagato dalla comunità. Il costo dei cambiamenti climatici a livello globale nell’ultimo secolo è pari al 2% del PIL mondiale: miliardi e miliardi euro. Il 30% di questi costi è imputabile all’impatto dell’agricoltura industriale, il 15% alle emissioni industriali, e nella produzione del cibo entrano tutti e due i fattori.
La qualità e i volumi di alimenti e sostanze nutritive che servono per produrre i prodotti confezionati condizionano l’ambiente ma anche la salute, direttamente. Avete mai notato come i panini del fast food nonostante siano diversi tra loro si assomigliano clamorosamente come sapore? Perché gli ingredienti (non solo quelli naturali ma anche i surrogati chimici) sono sempre gli stessi che ruotano in diverse combinazioni. La dieta del carrello pieno di promozioni e 3X2 è una dieta spesso povera di vitamine e proteine nobili, improntata su una bassa qualità e un alto numero di calorie. Lo scopo dell’industrializzazione alimentare è sempre stato quello di vendere calorie a basso prezzo. E ci sono riusciti: tante calorie a prezzi così bassi hanno aumentato a dismisura patologie come l’obesità e il diabete i cui costi ricadono non solo sui singoli ma sui sistemi sanitari cui tutti contribuiamo. Ecco, quindi, il terzo costo, la salute pubblica e individuale.
Ora, vi immaginate di quanto dovrebbe salire il prezzo dei plumcake se si tenesse conto di tutto questo, che i tecnici chiamano “costi esterni”. Io sinceramente, no. Ma so che quelle calorie impacchettate e brandizzate costano molto di più degli euro scritti sulla targhetta. Il mio consiglio? E’ semplice e banale: mangiamo meno e mangiamo meglio. Nel cibo cerchiamo il valore e non solo il prezzo minore. Facciamolo per noi.
4 Comments
Sergio
26 Febbraio 2015 at 18:49Sono completamente d’accordo con te! A mio avviso, in questo periodo di crisi, una parte dei consumatori fa fatica a trovare pranzo e cena………la fortuna dei fast food & company. Siamo stati abituati a consumare in modo indiscriminato. Mangiare meno e mangiare meglio é possibile ma richiede come minimo una consapevolezza. Inoltre, commercianti senza scrupoli spesso usano nomi tipo “biologico” anche se i prodotti non lo sono. Un’altra cosa che trovo assurda é fare arrivare in Italia aglio dall’Argentina o dalla Cina o limoni dal Cile….spetta a noi lavorare perché questi assurdi siano fermati.
tessa
1 Marzo 2015 at 14:17si, spesso usano dire “é biologico” senza che ci sia la certificazione…
Luisa
26 Febbraio 2015 at 22:00Sicuramente un discorso eticamente sensato, però quando si tratta di biologico bisogna tener conto che una famiglia media con figli non può permettersi di comprare biologico. Delle merendine che sono dannose per la salute si può fare a meno, ma di frutta, verdura e altri prodotti non credo. Questo purtroppo credo sia un dato di fatto. Altra cosa, spesso lo stile di vita ci costringe ad andare di fretta; il mercato e il sistema ci fanno vivere una vita troppo veloce e frenetica. Non tutti hanno il tempo o dedicano abbastanza tempo a cucinare. La biodiversità diventa un problema ogni qual volta si facciano entrare nel mercato e si sfruttino risorse di un Paese sottosviluppato. Anche il mercato equo-solidale può rappresentare una minaccia in questo senso.
tessa
1 Marzo 2015 at 14:19credo che in tanti casi il problema sia + legato alla modifica del modo di fare la spesa, ci sono tanti esempi di come si riesca a mangiare bio risparmiando ma bisogna avere a volte + tempo e soprattutto cambiare il modo di fare la spesa e cucinare. e per cambiare ci vuole conoscenza, volontà e un po’ di tempo x impostare le cose diversamente. un bacio