Non è di certo un segreto: la produzione di vino è una delle mie grandi passioni. Chi mi segue da un po’, ad esempio, conosce il vino che produciamo presso la Tenuta La Sabbiosa, piccolo paradiso della Sardegna dove protagoniste sono le viti “a piede franco” coltivate sulle dune del mare. Eppure, quando si parla di vini è facile fare confusione, anche perché spesso i consumatori sono bombardati da informazioni contrastanti. Ad esempio, cosa si intende per vino biologico?
È per questa ragione che ho deciso di contattare Marco Cossu, agronomo e coordinatore regionale per la Sardegna di BioAgriCert, uno degli organismi di controllo autorizzati dal Ministero delle Politiche Agricole per il controllo e la certificazione delle produzioni biologiche. Quali caratteristiche devono avere i vini biologici e, soprattutto, cosa non può essere impiegato per la loro produzione?
Vino biologico, il contesto normativo
Prima di entrare nel dettaglio sui vantaggi ambientali di questa tecnica produttiva, è utile fare un passo indietro. Cosa infatti intende la legge per vini biologici? In linea generale, possiamo dire che la disciplina sul vino biologico si riferisce al Reg. EU 848/18 e regolamenti da esso richiamati e collegati.
Senza entrare in complessi tecnicismi, si può così sintetizzare il contesto normativo del vino biologico:
- deve essere prodotto con uve provenienti da agricoltura biologica certificata;
- la coltivazione delle uve deve essere fatta quindi senza l’utilizzo di diserbanti, concimi e pesticidi sintetici (quindi non naturali);
- il produttore segue un preciso percorso di certificazione, per assicurare che tutte le fasi – dal vigneto all’imbottigliamento – siano tracciate e certificate dall’organismo di controllo che verifica, con visite annunciate e non, la conformità delle pratiche agricole, della vinificazione e la tracciabilità in tutte le fasi del processo.
- il prodotto non deve avere subito alcune pratiche enologiche ammesse nel convenzionale;
- sull’etichetta della bottiglia devono essere apposti il logo della certificazione biologica e le informazioni circa il produttore e l’organismo di controllo.
In altre parole, cosa serve per produrre un vino biologico? “Valgono le regole generali del biologico” – spiega Cossu – “ovvero non possono essere utilizzati diserbanti, fitofarmaci e concimi di sintesi (cioè non naturali). Si devono privilegiare pratiche agronomiche che mirino alla conservazione della sostanza organica nel suolo, al mantenimento e/o ripristino degli equilibri tra le fasi solida, liquida e gassosa del terreno. Si deve spingere sull’aumento della biodiversità per esempio predisponendo inerbimenti e siepi. In sostanza, si deve avere un approccio all’agricoltura antitetico rispetto a quello convenzionale intensivo. Quest’ultimo tende alla semplificazione riducendo al massimo le variabili, utilizza input chimici per massimizzare produzioni, impiega varietà e razze studiate per rendere al meglio in condizioni di controllo e di scarsa variabilità naturale. Comunque anche nella viticultura non biologica le cose stanno per fortuna cambiando: non è più come prima, quando si cercava di massimizzare la produzione, adesso si sta cercando in generale, anche nel convenzionale, di creare un equilibrio tra pianta e terreno per garantire una produzione costante e di qualità, riducendo l’impatto sull’ambiente“.
Ecosistema sano per un vino di qualità
La produzione di vini biologici parte da un importante presupposto: per ottenere un prodotto di qualità, è necessario avere a disposizione un ecosistema sano. Questo significa dedicarsi a una lunga serie di pratiche, non sempre comprese nella viticoltura convenzionale, che possano garantire non solo un perfetto equilibrio tra la pianta e il terreno, ma anche tra la fauna e la flora del luogo in cui crescono le viti.
“Certo, bisogna tendere ad avere equilibrio tra pianta e terreno” – spiega Cossu – “se si spinge troppo sulle quantità di prodotto si rischia di mandare in squilibrio la pianta e avere fenomeni di alternanza di produzione negli anni, nonché impoverimento del terreno. […] Si dovrebbe tendere ad avere una sorta di effetto volano in modo che la pianta abbia una costanza di produzione, sia a livello quantitativo che a livello qualitativo”
Ma come garantire questo equilibrio tra pianta e terreno? Innanzitutto, non utilizzando erbicidi, fertilizzanti e fitofarmaci di sintesi. Poi, prestando attenzione a tutte le specificità che caratterizzano il vigneto, il territorio locale e ad alcune strategie di coltivazione. “Bisogna stare molto più attenti” – prosegue Cossu – “anche semplicemente all’esposizione dei filari. Ad esempio, se ho condizioni adatte allo sviluppo di malattie fungine, crittogamiche, perché c’è scarsa circolazione d’aria, cercherò di trovare una soluzione nella disposizione dei filari che sia un compromesso tra migliore circolazione dell’aria e l’illuminazione necessaria. È quindi un lavoro di tecnica molto importante, soprattutto in prevenzione, in fase di progettazione dell’impianto. È chiaro che poi in fase di mantenimento e produzione, il fatto di non poter usare prodotti chimici, comporta un aumento del lavoro. È per questo motivo e anche per le minori rese, che il prezzo dei prodotti biologici è maggiore rispetto a quello dei convenzionali. In quel prezzo c’è anche il valore del rispetto dell’ambiente dovuto al minore impatto che questo tipo di agricoltura ha sugli equilibri del territorio”.
D’altronde, quello dello stretto legame tra ecosistema e qualità è un fattore ben noto ai viticoltori, considerando come in viticoltura si ha a disposizione un impianto che rimane fisso anche per trent’anni. Non è possibile fare la rotazione delle colture, come in altri tipi di agricoltura, per ripristinare la fertilità del terreno. Bisogna invece sempre lavorare proprio sugli equilibri tra la pianta e il terreno stesso, affinché si ottenga una produzione sana e virtuosa.
“Devi avere più cura del terreno” – specifica Cossu. “Ad esempio, per avere una buona presenza e disponibilità di microelementi, si dovrebbe fare in modo che il terreno sia ricco di vita, dai microbi agli insetti fino a invertebrati e superiori. Si deve cercare di creare quanta più biodiversità possibile. È un poco assurdo nutrire la pianta con potassio per avere frutti dolci o azoto per avere rigoglio vegetativo e più produzione, oppure con boro per avere migliore allegagione. Bisogna rendere il terreno in grado di essere già dotato di tutti gli elementi che servono alle piante e che questi siano oltre che presenti anche disponibili. Ciò si può fare aumentando il contenuto di sostanza organica e quindi della vita nel terreno. Un cardine del mondo vegetale è la ‘legge del minimo’: la pianta è condizionata, nell’assorbimento di tutti gli elementi minerali presenti nel terreno, da quello che ha in minor disponibilità. Maggiore biodiversità c’è nel terreno, migliore è la qualità e la quantità di elementi disponibili per la pianta. Bisogna quindi limitare gli interventi di input a quelli strettamente indispensabili”.
E sul fronte degli erbicidi? L’agricoltura convenzionale fa ricorso a soluzioni chimiche, come il glifosato, che impediscono la crescita di erbacce che potrebbero sottrarre sostanze nutritive alle viti. Nel biologico l’approccio è invece diverso, ovvero si spinge la crescita di erbe che possano innescare una competizione positiva con la pianta, mantenendo quindi il terreno attivo e fertile.
“Nel bio è importante l’inerbimento spontaneo oppure artificiale con semine di miscugli tra i filari, magari di essenze nettarifere e pollinifere” – spiega Cossu. “molto importante è che i tagli, gli sfalci, siano lasciati sul posto meglio se sovesciati, quindi interrati in modo da non impoverire il terreno. Uno dei problemi di quando si inerbisce è che, essendo la pianta abituata a lavorare senza competitor, inevitabilmente nel primo periodo andrà in sofferenza. Ci sarà competizione tra la fase erbacea e quella arborea, fino a un punto in cui arriverà l’assestamento. La pianta deve adattarsi ai nuovi equilibri prima di giovare della nuova situazione”.
E invece sull’utilizzo del rame, scelto per ridurre gli attacchi batterici e fungini alle viti? Spesso i critici della viticoltura biologica lamentano un uso eccessivo proprio di rame in sostituzione ad altre soluzioni.
“Per il rame c’è un limite che è identico per il convenzionale e il bio” – sottolinea Cossu. “Di 4 kg l’anno a ettaro per i trattamenti fitosanitari, ed è giusto che si tenda a limitarne il più possibile l’utilizzo. È importante la visione di insieme. Bisogna essere coscienti che il rame è tossico non solo per il patogeno che stiamo combattendo ma anche per tanti altri funghi o microbi utili. Soprattutto in viticoltura, dove lo si usa da un secolo e mezzo, bisogna limitare i trattamenti in fase vegetativa e a sintomi comparsi. Si dovrebbe lavorare in prevenzione, allargando lo sguardo al sistema pianta/terreno, favorendo il mantenimento della complessità e arricchendolo di vita. Se ci si concentra solo sul patogeno, sul sintomo, si rischia di intossicare il sistema, favorendo fenomeni di resistenza, di impoverimento della biodiversità, generando forme patogene specializzate in un ambiente più semplice e quindi più vulnerabile”.
“Per quanto riguarda il controllo degli insetti, un contesto vitivinicolo convenzionale spesso non gradisce le siepi, le formazioni spontanee di vegetali, mentre nel biologico sono altamente consigliate, perché proprio nelle siepi e nelle formazioni spontanee si rifugiano tantissimi insetti, molti dei quali utilissimi perché antagonisti di quelli indesiderati. Chiaro che se non ci sono questi insetti in giro, quelli dannosi si dovranno combattere con qualcosa di chimico. È il principio per cui una specie che non trova il suo antagonista cresce in maniera patogena. In generale, si può affermare che l’agroecosistema, benché sia in costante evoluzione e mutamento, è tanto più solido ed equilibrato quanto più complesso e ricco di specie è. Diciamo che non abbiamo un arsenale atomico ma gli strumenti per il controllo ci sono e sono efficaci se affiancati da attenzione, tempismo e conoscenza della fisiologia dei patogeni”
Ma cosa non si può usare per la vinificazione bio?
Come ho accennato in apertura, le normative di riferimento impongono alcuni importanti limiti ai produttori di vino, non solo in campo ma anche nelle lavorazioni in cantina da cui si ottiene il vino, affinché possa essere certificato come biologico. Tra le pratiche vietate, vi sono:
- concentrazione parziale a freddo;
- l’eliminazione della anidride solforosa attraverso procedimenti fisici;
- l’elettrodialisi per la stabilizzazione tartarica;
- la dealcolizzazione parziale;
- il trattamento con scambiatori cationici per la stabilizzazione tartatarica.
Alcune altre pratiche sono ammesse con limitazioni:
- i trattamenti termici, che non devono superare i 75 °C;
- la filtrazione, che deve avvenire con pori di diametro non inferiore agli 0,2 micrometri (in biodinamica non inferiori a 1 micrometro) in modo da preservare l lieviti e batteri;
- Sono previsti limiti quantitativi e qualitativi su coadiuvanti e additivi del vino, per esempio l’anidride solforosa non può superare i 100 mg/l per i vini rossi e i 150 mg/l per i bianchi, mentre per i vini convenzionali i limiti sono 160 mg/l per i rossi e 200 mg/l per i bianchi.
“Il senso del divieto e/o limitazione di queste pratiche enologiche è lo stesso che guida gli interventi agronomici e cioè il mantenimento della vita” – sottolinea Cossu. “Quelle elencate prima sono tutte pratiche tese alla stabilizzazione mediante l’eliminazione delle variabili, ovvero di batteri, lieviti etc. Ma questi sono anche elementi che caratterizzano il prodotto, lo rendono figlio di un territorio e dell’andamento stagionale di quel preciso anno. In questo senso, il vino biologico, per sua natura, è molto vicino al concetto di ‘terroir’. Se poi uno cerca nel vino la perfezione, il bilanciamento, la standardizzazione è un altro discorso. Personalmente, sono più attratto dalle sfumature, dalle ‘imperfezioni’, perché mi rimangono più nella memoria rispetto alla noiosa perfezione, alla standardizzazione…. ma si sa ‘de gustibus'”.
Vi sono poi una serie di restrizioni, che riguardano la chiarifica, acidificazione, stabilizzazione, l’utilizzo di antimicrobici. “Non meno importante è l’attenzione ai residui di pesticidi nelle uve e quindi nel vino. Per esempio il Metalaxyl, un fungicida sistemico utilizzatissimo (per esempio contro la peronospora), ha un limite massimo di presenza (LMR) nell’uva convenzionale di 1 mg/kg, mentre nel biologico in cui è vietato l’utilizzo, il limite è di 0,01 mg/kg”.
“In ogni caso – specifica Cossu – a livello enologico oggi c’è tanta tecnologia che fare un buon vino non è un problema. La fase più importante della vinificazione è quella della campagna. La differenza grossa la fa la coltivazione dell’uva”.
Il vino bio al consumatore
Quello dei vini biologici è un ambito che richiede, come ho già accennato, una grande attenzione da parte dei produttori, in tutte le fasi: dalla coltivazione delle vigne alla vinificazione, un’attenzione ed un minor impatto ambientale, che il consumatore è sempre più orientato a premiare.
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