I rifiuti in plastica dispersi in ambiente si sono trasformati in un habitat artificiale, chiamato plastisfera: scopriamo perché preoccupa così tanto gli scienziati.
Più di una volta, qui su Ecocentrica, abbiamo affrontato il problema della plastica in mare, che l’UNEP, il Programma Ambiente delle Nazioni Unite, ha inserito nell’elenco delle 6 emergenze ambientali prioritarie. I numeri sono impressionanti: uno studio pubblicato qualche anno fa sulla prestigiosa rivista Science (Jambeck et al., “Plastic waste inputs from land into the ocean”, 2015), stimava come negli oceani del mondo si fossero già accumulate più di 150 milioni di tonnellate di plastica, e si prevedeva che il flusso annuale di rifiuti di plastica nell’oceano potrebbe quasi triplicare entro il 2040, fino ritrovare 50 kg di plastica per ogni metro di costa in tutto il mondo.
Le conseguenze sono numerose, e non ancora del tutto misurabili, ma certamente gravi. Se nel post precedente abbiamo parlato soprattutto dei rischi fisici a cui è esposta la fauna marina, come soffocamento o intrappolamento, e di quelli chimici, legati al mix di contaminanti associati ai frammenti in plastica, ora vorrei porre l’attenzione su una minaccia scoperta in tempi più recenti: quella batteriologica.
Cos’è la plastisfera
Nel post precedente avevo accennato di come la circolazione oceanica, quella che trasporta i rifiuti in tutto il mondo, crei anche delle zone di convergenza in cui i frammenti, mantenuti dai vortici oceanici, si distribuiscono sulla superficie marina: le cosiddette “isole di plastica”. E proprio queste vaste aree, in cui la plastica si è accumulata, sono diventate l’habitat ideale per il mondo batterico.
Il termine plastisfera è stato coniato da Linda Amaral-Zettler, microbiologa marina del Royal Netherlands Institute for Sea Research, e utilizzato per la prima volta in uno studio di cui è stata co-autrice nel 2013 (potete trovarlo a questo link: Zettler et al., “Life in the plastisphere: microbial communities on plastic marine debris). Lo Smithsonian Institution la definisce un nuovo ecosistema marino, perché ospita un insieme di microrganismi anche molto diversi da quell’ambiente oceanico circostante: i rifiuti di plastica si sono rivelati un ottimo substrato su cui i batteri possono aderire, anzi, diciamo che la preferiscono ai substrati naturali, perché permettono una maggiore velocità di crescita grazie alle proprietà del materiale come l’idrofobicità e la sua lunga persistenza in ambiente. Dallo studio che ho citato, è emerso che la biodiversità della plastisfera è elevatissima: su una solo microplastica (quindi un frammento di 5 mm o meno di diametro) sono stati riscontrati oltre 1.000 tipi di microbi!
Ho parlato di rischi batteriologici legati alla plastica perché, tra i batteri che tendono a colonizzare preferibilmente questo materiale rispetto ad altri, ce ne sono alcuni con azione patogena nei confronti di pesci, alghe, ma anche esseri umani. Un batterio che si è rivelato molto comune sulla plastisfera è quello del genere Vibrio, che comprende ceppi innocui per uomo e animali, ma anche la variante Vibrio cholerae, associata alla malattia infettiva del colera, oltre ad altri responsabili di disturbi gastrointestinali.
E la possibile trasmissione di infezioni non è l’unico motivo di preoccupazione per la comunità scientifica.
Antibiotico-resistenza per colpa della plastica in mare?
Qui su Ecocentrica avevamo già parlato del fenomeno della resistenza agli antibiotici: lo specialista in Microbiologia e Virologia, ci aveva spiegato che avviene quando un batterio è in grado di sopravvivere e riprodursi nonostante la somministrazione dell’antibiotico; l’aspetto più preoccupante è che la resistenza si può trasmettere ad altri batteri. E pare che sulla plastisfera avvenga proprio questo meccanismo.
Le comunità microbiche, spesso, formano dei biofilm, strutture che aderiscono alle superfici e in cui le cellule vivono aggregate; quello che emerge da studi recenti è che i batteri che costituiscono lo stesso biofilm sui rifiuti in plastica tendano ad uniformarsi tra loro e favorire quindi un trasferimento della resistenza agli antibiotici. Nel 2020, una ricerca pubblicata su Plos One (AL Laverty, “Bacterial biofilms colonizing plastics in estuarine waters, with an emphasis on Vibrio spp. and their antibacterial resistance”) ha confermato la presenza di biofilm microbici sulla superficie delle microplastiche anche negli estuari; sono state riscontrate specie batteriche appartenenti al genere Vibrio e isolati tre ceppi patogeni per l’uomo, con una concentrazione molto maggiore rispetto a quella dei campioni di acqua prelevati. I ricercatori hanno poi determinato i profili di resistenza delle tre specie a sei diversi antibiotici: quasi un terzo dei batteri isolati si è dimostrato resistente a più di uno di essi.
Gli studi in questo settore sono ancora all’inizio, ma quello che emerge è che la plastisfera potrebbe rendere le microplastiche ancora più pericolose, per flora e fauna marina, ma anche per la salute umana.
E questo non è che l’ennesimo esempio di come, quando l’uomo danneggia l’ambiente, sia lui stesso a pagare il prezzo più alto.
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