Green Fashion

Moda e ambiente: i nomi dei tessuti e la loro sostenibilità


Tessa Gelisio, tessuti sostenibili

Quanti di voi conoscono i nomi dei tessuti, la loro origine e il loro impatto sull’ambiente? È questa la domanda che mi sono posta leggendo un recente studio condotto negli Stati Uniti, dal quale emerge un dato allarmante: il 69% dei consumatori non è al corrente dell’impiego di petrolio e suoi derivati per la produzione di gran parte degli indumenti disponibili sulla grande distribuzione. E non è tutto: il 93% degli acquirenti ha sovrastimato la presenza di fibre naturali o di riciclo in capi di largo consumo, per via di informazioni fuorvianti fornite dai produttori.

Purtroppo è così: il settore della moda, e in particolare quello della fast-fashion, è uno dei più colpiti dal greenwashing. Allo scopo di far presa su una sempre maggiore attenzione ambientale nei consumatori, non sono affatto poche le società che hanno deciso di spacciare i loro abiti come “ecologici”, anche quando privi di fibre effettivamente a basso impatto. Ma come fare per non cadere in inganno?

Non c’è niente di meglio che una maggiore consapevolezza per non inciampare nel tranello del greenwashing. Per questa ragione, ho deciso di preparare una lista dei tessuti e delle fibre più comuni, corredata da un “semaforo della sostenibilità”: una comoda indicazione per capire, con un solo colpo d’occhio, se l’indumento che stiamo acquistando sia davvero a basso impatto.

Fibre e tessuti di origine completamente vegetale

Per andare abbastanza sul sicuro nella scelta di capi più sostenibili, la prima regola è molto semplice: preferire, quando possibile, tessuti di origine vegetale. Meglio se ancora da agricoltura biologica e organica, dotati di apposite certificazioni affinché la produzione sia a basso spreco di acqua ed energia elettrica, nonché a basse emissioni.

Cotone, lino e canapa: tra produzione classica e biologica

Cotone, lino e canapa

Cotone, lino e canapa rappresentano i tre grandi classici dei tessuti naturali. Affinché siano anche sostenibili, è però necessario indagare come queste piante vengano coltivare e trasformate in fibre. Mentre per lino e canapa la produzione rimane a basso impatto sia che ci si avvalga di coltivazioni classiche o biologiche, il discorso è assai diverso per il cotone. Nel dettaglio:

  • cotone: si ricava dalla bambagia dei semi dell’omonima pianta, che viene poi lavorata per ottenerne un filato resistente e molto versatile. Per la sua coltivazione, il cotone richiede però grandi quantità d’acqua e, in assenza di certificazioni, viene trattato sui campi con pesticidi inquinanti. Ancora, pul provenire da monocolture o da specie geneticamente modificate (OGM). Scegliendolo biologico si superano queste problematiche e, fatto non meno importante, per la produzione si utilizza fino al 50% in meno di risorse idriche;
  • lino: è una fibra molto versatile, ricavata dall’omonima pianta, e composta ben al 70% di cellulosa, quindi dall’enorme biodegradabilità. Sebbene si possa scegliere il lino anche da coltivazione biologica, le caratteristiche uniche di questa piante ne garantiscono una produzione a basso impatto anche con le tecniche classiche;
  • canapa: fibra a lungo dimenticata, e oggi di nuovo in voga, è un vero portento di sostenibilità. Permette di ottenere una fibra molto resistente e anche ruvida e, per questo, è spesso scelta per la produzione di borse, zaini e altri accessori analoghi. Il suo peso ambientale è ridotto poiché richiede poca acqua per crescere rigogliosa e presenta un’elevatissima biodegradabilità, anche quando coltivata in modo classico.

Per accertarci che queste fibre siano davvero prodotte con una maggiore attenzione all’ambiente, utile è controllare in etichetta la presenza di certificazioni: la più diffusa è la GOTS, che certifica la produzione organica e a basso impatto su tutta la filiera, così come la OEKO-TEX.

Juta, kapok e caucciù: sostenibili, ma attenzione alla provenienza

Tessuti sostenibili, juta, kapol e caucciu

Tra le fibre di origine completamente vegetale, vale la pena di citare tre alternative non sempre molto conosciute, eppure dall’elevata sostenibilità:

  • juta: ricavata dalle piante del genere Corchorus, la juta è comunemente utilizzata per la creazione di tessuti resistenti, ad esempio quelli dei sacchi. Non tutti però sanno che questa pianta è molto efficace nell’assorbire l’anidride carbonica: un ettaro coltivato assorbe 15 tonnellate di CO2 e immette in atmosfera 11 tonnellate di ossigeno. Inoltre, è completamente biodegradabile;
  • kapok: fibra ancora non estremamente nota, è già stata eletta come una delle più sostenibili di origine vegetale. Si ricava dalla Ceiba pentandra, una pianta delle Malvaceae ricoperta di spine, dalla crescita spontanea, basse necessità d’acqua e enorme capacità di assorbire CO2. La fibra però difficilmente può essere utilizzata pura, ma deve essere abbinata ad altri tessuti, di conseguenza è necessario che questi siano biologici affinché anche il kapok sia a basso impatto;
  • caucciù: non è propriamente un tessuto, bensì una gomma naturale che viene estratta dal lattice della Hevea brasiliensis. Per poter essere effettivamente utilizzato, il lattice deve passare attraverso un processo di vulcanizzazione. Ha una grande biodegradabilità ed è un ottimo sostituto delle gomme sintetiche.

Per questi materiali è necessario sempre controllare la provenienza e, soprattutto, le modalità di lavorazione. Tutte e tre le fibre vengono oggi coltivate soprattutto in Asia: affinché siano sostenibili, le coltivazioni non devono andare a detrimento degli habitat locali (foreste), come accade spesso con le  estese monocolture. Ovviamente, vanno considerati anche i costi ambientali legati al trasporto, ma data la loro capacità di assorbire grandi quantità di CO2 durante la crescita, la bilancia sembra rimanere comunque positiva.

Fibre di origine vegetale, con lavorazione artificiale

Vi sono poi fibre ricavate da vegetali che, tuttavia, per poter essere trasformate in tessuti devono essere sottoposte a una lavorazione artificiale. La sostenibilità di questi materiali dipende quindi non solo dall’impatto ambientale della coltivazione della materia prima, ma anche dai processi di trasformazione.

Bambù, viscosa, Bemberg: un buon trade-off

Bambù, viscosa e bemberg

Iniziamo con le fibre vegetali, ma dalla lavorazione industriale, più conosciute come bambù, viscosa e Bemberg. Possono essere considerate fibre sostenibili?

  • bambù: si parla sempre più spesso delle fibre ricavate dal bambù, considerato una valida alternativa sia per ottenere carta che tessuti. E, in un certo senso, se ne discute a ragione: il bambù cresce molto velocemente e, per questo, può rappresenta una soluzione all’abbattimento di altre specie a minor accrescimento. Tuttavia, la trasformazione del bambù in fibra tessile richiede alcuni procedimenti chimici e, di conseguenza, il suo impatto ambientale dipende molto da come viene prodotto. È necessario quindi accertarsi che il produttore abbia investito nella riduzione del consumo di risorse idriche in fase di coltivazione, nella riduzione degli scarti chimici di lavorazione e nella riduzione delle emissioni. Un buon riferimento può essere la certificazione OEKO-TEX, che misura appunto tutti questi standard produttivi;
  • viscosa: si tratta di una fibra ricavata dalla cellulosa di alberi a crescita rapida, sottoposta poi a trattamenti chimici per trarne una fibra tessile. Affinché sia sostenibile, è però necessario che la coltivazione della materia prima avvenga senza danni agli ecosistemi e senza l’impiego di pesticidi chimici, mentre la fase di produzione con opportuni sistemi di recupero e filtraggio degli inquinanti oppure con la loro riduzione. In genere, con la viscosa certificata OEKO-TEX o marchiata Tencel – come vedremo nei prossimi paragrafi – si va abbastanza sul sicuro;
  • Bemberg: è il nome commerciale di un tessuto, inventato dall’omonima azienda, ricavato dalla lavorazione degli scarti industriali dei semi di cotone, i cosiddetti linter. Si tratta di fibre pre-consumo che altrimenti non verrebbero impiegate e, dato il riciclo e l’attenzione dell’azienda stessa a pratiche produttive a basso impatto, la si può considerare sostenibile.

Lyocell, Modal, Orange Fiber: le tecno-fibre vegetali

Tessuti sostenibili: Lyocell, Modal e Orange Fiber

Nell’universo delle fibre estratte da vegetali, ma lavorate artificialmente, non mancano nemmeno le cosiddette “tecno-fibre”. La loro ideazione è mediamente recente – nella maggior parte dei casi, a partire dagli anni ‘80 – e sono state create proprio come alternative meno impattanti rispetto ai tessuti sintetici.

  • Lyocell: è una fibra ricavata dalla polpa di alcune piante, come l’eucalipto. Si tratta di una sorta di “viscosa moderna”, quindi sempre sottoposta a trattamenti artificiali. Affinché sia sostenibile, deve essere certificata affinché sia la coltivazione delle materie prime che la lavorazione siano a basso impatto. Così è nella maggior parte dei casi, grazie al marchio Tencel;
  • Modal: è un’alternativa al rayon, ovvero una viscosa-seta di origine vegetale, ricavata dalla polpa del legno di faggio, sottoposta poi a lavorazione chimica. Anche in questo caso, è utile cercare le certificazioni: FSC, per materie prime da foreste sostenibili, così come OEKO-TEK per il basso impatto ambientale dei processi produttivi;
  • Orange Fiber: è ricavata dai sottoprodotti dell’industria del succo di agrumi e, fatto non meno importante, di origine italiana. L’omonima azienda produttrice assicura la massima sostenibilità possibile in ogni fase del recupero dei sottoprodotti e della loro lavorazione.

Fibre e tessuti di origine animale: tra ambiente ed etica

Le fibre di origine animale accompagnano l’uomo sin da tempi antichissimi. Oggi è però necessario non solo valutarne la loro sostenibilità a livello ambientale, ma anche dal punto di vista etico, ovvero valutando quanto venga garantito il benessere degli animali dai quali si ricavano queste fibre.

Lana, seta e pelle: quando l’etica fa la differenza

Lana, seta e pelle

Lana, seta e pelle rappresentano i tessuti di origine animale più conosciuti e diffusi. Come ho già accennato, per stabilirne la loro sostenibilità è necessario valutarne sia l’impatto ambientale che quello etico, sul benessere degli animali.

Partiamo con la lana. Di per sé, il filato finito è biodegradabile, ma affinché sia anche sostenibile ed etico è necessario verificare la presenza di opportune certificazioni. In particolare, bisognerà cercare in etichetta la certificazione GOTS – che assicura che il filato è stato prodotto a basso impatto ambientale e con metodi di allevamento etici – così come eventualmente il marchio “cruelty-free”. Si tratti di lana di pecora, di alpaca o di vigogna, è infatti essenziale che gli animali siano stati allevati liberi di pascolare e tosati avvalendosi di tecniche che non abbiano procurato loro dolore. Purtroppo, le lane da allevamenti intensivi spesso prevedono che le pecore vengano tosate senza la minima cura al benessere, tra violenze e ferite sui corpi.

Un discorso a parte serve, poi, per il cachemere: questa lana pregiata purtroppo non eccelle in sostenibilità, poiché la grande richiesta internazionale sta mettendo a dura prova gli ecosistemi dei luoghi di produzione. MEeglio preferire quello riciclato o rigenerato.

Considerazioni simili anche per la seta, un tessuto dall’alta biodegradabilità ma non sempre etico. La produzione classica prevede l’uccisione dei bachi e, per questa ragione, non può essere considerata etica. Fortunatamente, da qualche anno è disponibile la seta biologica, ricavata solo da bachi che hanno concluso naturalmente il loro ciclo di vita.

Più complesso è invece l’ambito della pelle, di cui vi ho già parlato anche su Ecocentrica. Fatta eccezione per coloro che non desiderano indossare pelle bovina per questioni etiche, questa soluzione è ben più sostenibile rispetto alla cosiddetta “simil-pelle”, che di ecologico ha ben poco trattandosi di polimeri plastici. Nel dettaglio:

  • Pelle bovina con concia vegetale: è la più sostenibile, perché si avvale degli scarti dell’industria alimentare – nessun bovino viene abbattuto unicamente per produrla -– e poi viene trattata con tecniche naturali, con ridotto consumo idrico richieste e a basso impatto ambientale;
  • Pelle bovina con concia chimica: per quanto si recuperino gli scarti dell’industria alimentare, la concia industriale/chimica ha un forte impatto sia in termini di consumo idrico che di rilascio di inquinanti negli ecosistemi. Questo tipo di produzione può arrivare inoltre a emettere fino a 66 kg di CO2 per un semplice paio di stivali, consumando oltre 12.000 litri d’acqua;
  • Pelle da altri animali: che si tratti di coccodrillo, serpente o altre specie ancora, è da evitare. Questo perché gli animali vengono abbattuti unicamente per la produzione della pelle – non sono scarti da altre industrie. Poi, per essere poi utilizzate, queste pelli passano attraverso lavorazioni chimiche ad alto impatto.

Dalla pelle alle pellicce il passo è breve, ma la risposta è secca: le pellicce non sono etiche e, per questo, è meglio preferire altri tessuti.

Fibre sintetiche: impatto enorme, puntiamo sul riciclo

Infine, uno sguardo anche alle principali fibre sintetiche. Dal punto di vista di una maggiore attenzione all’ambiente, la loro performance è davvero scarta: i processi produttivi sono altamente inquinanti, i tessuti finiti rilasciano microplastiche e il loro smaltimento è complesso. Fortunatamente, oggi ci si può avvalere anche di fibre sintetiche di riciclo: meno impattanti sull’ambiente, ma ancora lontane dalla sostenibilità di tessuti vegetali e animali, biologici e certificati.

Fibre sintetiche vergini: tra derivati del petrolio e plastica

Fibre sintetiche vergini

Nel corso del ‘900, le fibre sintetiche sono divenute estremamente popolari, per via dei loro costi contenuti e la buona resistenza che garantivano ai tessuti. Eppure, dal punto di vista della tutela dell’ambiente, rappresentano un problema non da poco: vengono quasi esclusivamente realizzate con derivati del petrolio e polimeri plastici, la loro produzione è altamente inquinante, sono di difficile smaltimento e, come se bastasse, rappresentano la principale fonte mondiale di microplastiche. Sapete, ad esempio, che un ciclo in lavatrice con capi sintetici può generare dai 700.000 a 1 milione di minuscoli frammenti di plastica?

Ma quali sono le fibre sintetiche più comuni? Orientarsi non è semplice, poiché a volte sono indicate con il nome del polimero con cui sono state create, altre con una denominazione commerciale. In breve:

  • acrilico: è una fibra sintetica ricavata dall’acrilonitrile, un monomero, nata come alternativa alla maglieria di origine animale;
  • neoprene: è il nome commerciale di una famiglia di gomme sintetiche realizzate con policloroprene, scelte soprattutto per tessuti tecnici, come ad esempio le mute da sub;
  • nylon: nome commerciale di un polimero poliammidico, noto soprattutto per la sua leggerezza e la sua elasticità;
  • poliestere: è una fibra realizzata con polimeri plastici, come il PET, dall’elevata resistenza ed elasticità. È molto diffusa per la produzione di abiti sintetici, tessili per la casa e rivestimenti di mobili;
  • elastam: è una fibra sintetica di poliuretano, molto elastica, conosciuta soprattutto per i suoi nomi commerciali, quali Lycra, Elaspam, Elastan, Elastane, Creora, Spandex, Linel e molti altri ancora;
  • polivinilcloruro (PVC): è un tessuto decisamente resistente, malleabile, impermeabile ed elastico, ottenuto dalla lavorazione inquinante del PVC.
  • simil-pelle: termine generico che incorpora tutte le tipologie di pelli sintetiche, solitamente realizzate dalla lavorazione sempre del PVC.

Fibre sintetiche riciclate: attenzione alle microplastiche

Fibre sintetiche riciclate

Una buona alternativa alle fibre sintetiche vergini è rappresentata dai nuovi tessuti ottenuti dal riciclo di polimeri plastici, si tratti appunto di vecchi capi sintetici o altre tipologie di rifiuti. Il loro impatto sull’ambiente è minore, sia perché donano una seconda vita a materiali che altrimenti finirebbero in discarica – o, peggio, nel mare – tuttavia permangono alcune problematiche. Prima fra tutti, quella delle microplastiche: anche i tessuti sintetici riciclati ne rilasciano in grande quantità. Ancora, è necessario anche valutare l’impatto idrico ed energetico dei processi di recupero e riciclo di questi scarti.

Di certo i tessuti sintetici di riciclo non sono da demonizzare – anzi, rappresentano un’alternativa da prendere in seria considerazione. Tuttavia, se si ha la possibilità di scegliere, è sempre meglio preferire le fibre vegetali e animali biologiche. Ma quali sono le fibre sintetiche riciclate più diffuse?

  • RPET: si ottiene dal riciclo di rifiuti in PET, come ad esempio le bottiglie di plastica, poi trasformato in poliestere o altre fibre tessili sintetiche;
  • Econyl: è il nome commerciale di un tipo di nylon riciclato, recuperato completamente da rifiuti oceanici o da discarica. Viene sempre più utilizzato per la produzione di costumi da bagno;
  • Eco-Elastane: nome commerciale di elastam recuperato. Il nome può variare a seconda del produttore, come ad esempio nel caso dell’Eco-Spandex.

In definitiva, per una moda davvero sostenibile e nostre scelte d’acquisto coscienziose, dobbiamo imparare a riconoscere i tessuti: sapere come vengano prodotti, e quale impatto ha il loro smaltimento, può fare la differenza!

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