Cosa succede ai rifiuti di plastica prodotti in Europa, vengono smaltiti o riciclati all’interno del Vecchio Continente? Non proprio. Solo una minima parte della plastica viene effettivamente gestita nei Paesi europei, il resto viene spedito all’estero. E, nella maggior parte dei casi, finisce per alimentare discariche a cielo aperto e pericolosi roghi. È quanto sta accadendo in alcune zone della Turchia, ad esempio, letteralmente soffocate dalla nostra plastica. Ma quali accordi permettono di cedere questi rifiuti e perché l’Europa, anziché farsi carico della sua plastica, preferisce contribuire alla distruzione di ecosistemi lontani dai suoi territori?
A queste e altre domande ha provato a dare una risposta una recente inchiesta di Presa Diretta, pronta a dimostrare i gravi danni che l’esportazione di rifiuti europei – molti dei quali italiani – sta causando alle località meno ricche della Turchia. Un vero e proprio scandalo, che ci costringe a ripensare al modo non solo con cui la plastica viene smaltita, ma anche e soprattutto consumata.
Adana, la città turca sommersa dalla nostra plastica
Discariche a cielo aperto, fosse riempite di rifiuti, corsi d’acqua ricolmi di plastica, roghi a ogni angolo della città: è questo lo scenario che si apre di fronte agli occhi visitando le zone più povere di Adana, una delle città più grandi della Turchia, purtroppo anche fra le più colpite dal recente terremoto. Eppure, i rifiuti che soffocano questa città, quasi sempre abbandonati illegalmente, non sono prodotti dalle popolazioni locali. Sono di provenienza europea, e anche largamente italiana: è la plastica che cediamo ad altri, affinché si facciano carico degli effetti dei nostri consumi.
I rifiuti che sommergono Adana sono racchiusi in grandi sacchi industriali, delle vere e proprie balle di plastica, e sono stati ceduti dai Paesi europei alle locali aziende di riciclo. Ma com’è possibile che i cittadini europei, che da anni si impegnano nella raccolta differenziata, poi vedano i loro rifiuti abbandonati in cave a cielo aperto, all’interno dei centri abitati?
Tra la Cina e la Convenzione di Basilea
A partire dal 2018, la Turchia ha visto un incremento esponenziale delle importazioni di rifiuti in plastica. La data non è casuale: proprio nello stesso anno la Cina, un tempo il maggiore importatore mondiale di rifiuti europei, ha deciso di “chiudere le proprie frontiere” e di non accettare più plastica dal Vecchio Continente. Questi rifiuti sono stati allora dirottati in Turchia: si è registrato un aumento del 300% a livello continentale, del 500% – pari a 11.000 tonnellate nel 2021, contro le 1700 del 2020 – solo considerando il dato italiano. Ma come è possibile?
Il problema dello smaltimento e del recupero di rifiuti in plastica coinvolge tutto il mondo, considerando – così come evidenzia uno studio apparso su Science Advances – come dal 1950 al 2015 siano stati prodotti più 6.3 miliardi di tonnellate di scarti in plastica, di cui solo il 9% è stato riciclato, il 12% incenerito e il 79% finito in discarica o abbandonato nell’ambiente, soprattutto in Paesi in via di sviluppo. Per far fronte a questa emergenza è nata la Convenzione di Basilea, a cui l’Europa aderisce ma che – dati gli effetti in Turchia – non rispetta pienamente.
La Convenzione di Basilea sul controllo dei movimenti oltre frontiera di rifiuti pericolosi e sulla loro eliminazione è un trattato, promosso dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, siglato nel 1989 tra 189 Paesi mondiali. L’accordo internazionale prevede che gli Stati aderenti smaltiscano e riciclino quanti più rifiuti pericolosi in patria e, solo in caso questo non fosse possibile, possano esportare o cedere ad altre nazioni virtuose scarti riciclabili. Sul fronte della plastica, in linea teorica la porzione esportabile sarebbe mediamente ridotta rispetto al monte complessivo di rifiuti generati, proprio perché solo una minima parte di questa plastica può essere riciclata. Eppure così non avviene: in Turchia l’Europa sta mandando di tutto, anche scarti non consentiti. Per quale ragione?
Riciclo della plastica all’estero: tra truffe e leggi aggirate
La maggior parte della plastica europea che giunge in Turchia non è riciclabile. È quanto svelano i ricercatori dell’Università di Çukurova che, ormai da anni, stanno studiando gli effetti dell’importazione dei rifiuti sulla salute e sugli ecosistemi locali. Non a caso, il problema delle microplastiche qui è più sentito che altrove e i fiumi di questo distretto turco, purtroppo, sono i più contaminati dell’area del Mediterraneo.
Ma per quale ragione arriva in Turchia così tanta plastica non riciclabile, peraltro non ammessa dalla Convenzione di Basilea? Innanzitutto, vi è un problema a livello europeo: i container che partono via mare per raggiungere i porti turchi spesso sono ricolmi di materiali e altri rifiuti che non potrebbero essere ceduti all’estero. Dopodiché, vi sono numerose problematiche all’arrivo.
Gli impianti per la gestione dei rifiuti plastici di Adana sorgono nei quartieri più poveri della città, in mezzo alle case. Qui, una volta smistati i rifiuti provenienti dall’Europa, solo una piccola parte viene effettivamente recuperata. Quella non riciclabile dovrebbe essere mandata agli inceneritori, ma ciò non avviene per due principali ragioni:
- le aziende di riciclo dovrebbero sostenere i costi dell’incenerimento, perdendo così parte dei loro iniziali profitti;
- la legge turca vieta l’importazione e l’incenerimento di plastica non ammessa per le operazioni di riciclo.
Cosa accade, a questo punto? Delle vere e proprie truffe. Ogni società di riciclo deve raggiungere degli specifici target annuali per rimanere sul mercato. Così, nell’impossibilità di riciclare la plastica, una grande porzione viene “fatta sparire”, facendo risultare che questi target siano stati raggiunti. Nella maggior parte dei casi, la plastica viene bruciata sul posto, generando fumi tossici e scuri che possono essere avvistati anche a grande distanza. Solo nell’ultimo anno sono stati più di 120 gli incendi rilevati nei pressi di impianti di smaltimento della plastica: praticamente, ogni tre giorni i rifiuti in eccesso vengono bruciati. I roghi possono poi durare per mesi poiché, una volta che la plastica prende fuoco, è molto difficile da contenere.
Ancora, i rifiuti vengono abbandonati nell’ambiente oppure interrati. E su questi campi poi ci si coltiva, spesso all’insaputa degli stessi agricoltori, i quali rischiano così di trovarsi con ortaggi contaminati. Non ultimo, in zona vi sono diversi allevamenti e gli animali si abbeverano da pozzi naturali, purtroppo ricolmi di plastica.
Come se non bastasse, vi è poi un traffico di rifiuti illegale: oltre alla plastica, in Turchia arrivano quintali di TetraPak, che non potrebbe essere esportato. La truffa qui avviene nei Paesi di partenza: questo materiale è nascosto all’interno dei container, mescolato con la plastica, e una volta giunto illegalmente nei Paesi di destinazione non può essere smaltito.
La terra dei fuochi turca: i danni della plastica alle persone
Quali siano le ragioni, questa “terra dei fuochi turca” sta danneggiando le persone. Mentre nel Vecchio Continente le istituzioni si vantano per i successi della raccolta differenziata, in Turchia i rifiuti vengono recuperati da bambini e ragazzini, spesso rifugiati siriani, soliti a vivere in baracche. Per poco meno di 10 euro al giorno, questi giovanissimi si occupano di raccogliere la plastica trovata in giro per la città e di consegnarla alle aziende di riciclo. Queste ultime, però, hanno dimezzato il loro compenso: poiché ora possono approfittare di un eccesso di plastica europea, i rifiuti cittadini non hanno per loro più grande appeal.
Nel frattempo, nel porto di Mersin arrivano circa 50 navi al giorno cariche di rifiuti provenienti dall’Europa e qui le aziende di smaltimento e riciclo si trovano all’interno di centri urbani, dove ormai l’aria è irrespirabile e stanno crescendo le diagnosi di asma, disturbi respiratori gravi e tumori.
Cosa sta facendo l’Europa?
Ma cosa stanno facendo le istituzioni europee, di fronte a quello che è un vero e proprio scandalo umano e ambientale? Lo scorso 16 gennaio, il Parlamento Europeo ha votato la proposta della Commissione per l’Ambiente in favore del divieto di esportazione di rifiuti in plastica fuori dall’Unione Europea. Tuttavia, l’obiettivo appare ancora lontano.
Così come spiega il commissario Virginijus Siskevicius, alcune esportazioni rimarranno possibili, purché vi siano sufficienti controlli affinché le aziende implicate possano dimostrarli di poterli gestire in modo ecocompatibile. In caso di violazioni la licenza per queste aziende può essere revocata, tuttavia questo sistema non è in grado di intercettare le spedizioni illegali. Proprio di recente, ad esempio, al porto di Bari sono stati rinvenuti dalle autorità dei container pronti a essere spediti all’estero, ricolmi di rifiuti non esportabili: carta, cartone, filamenti, macinato da indifferenziato, plastica non riciclabile. Ad alimentare il commercio illecito di rifiuti, vi è però quello legale: lo spiega l’Environmental Investigation Agency, perché il fatto che ci sia poca trasparenza e scarsi controlli aumenta la possibilità che si possa operare illegalmente.
Molto, in definitiva, deve essere ancora fatto. Si dovrebbero vietare completamente le esportazioni, si dovrebbero condurre controlli ferrei sulle aziende implicate nel riciclo e, ancora, dovremmo cambiare le nostre abitudini. Meno plastica consumiamo, meno danneggiamo l’ambiente e la salute di tutti.
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