Punto di vista

Pfas nell’acqua in Veneto: tutto quello che c’è da sapere


Cos’è successo, cosa sono queste sostanze e perché sono un pericolo per la salute

Noi italiani siamo dei convinti consumatori di acqua minerale: con 11 miliardi di bottiglie di plastica l’anno, più altri quasi 3 miliardi in vetro, siamo i primi in Europa, secondi al mondo dietro il Messico. Tanta diffidenza verso l’acqua del rubinetto è fondata? In linea di massima no, perché è di buona qualità e soggetta a moltissimi controlli, come potete leggere nel post dedicato al confronto tra acqua minerale e di rubinetto. Esiste però un caso che, seppure costituisca un’eccezione, ha una portata così vasta che vale la pena approfondire.

Avrete sicuramente sentito parlare o letto sui giornali, in questi anni, del problema dell’inquinamento dell’acqua in Veneto per via dei Pfas. Anche negli ultimi tempi siamo stati bombardati di notizie sul tema: le campagne di screening alla tiroide eseguite a Vicenza hanno riscontrato anomalie in 1 caso su 5, un recente studio di EFSA (Autorità europea per la sicurezza alimentare) ha evidenziato come il rischio si possa estendere a tutta la popolazione europea per via della contaminazione degli alimenti prodotti in Veneto… insomma, una preoccupazione che si espande a macchia d’olio.

Ho deciso perciò di fare un quadro completo della situazione, dall’inizio a oggi: ecco che cosa sono queste sostanze inquinanti e che cosa sta succedendo ad ambiente e popolazione.

PFAS: COSA SONO (E PERCHÉ SONO PERICOLOSI PER LA SALUTE)

Foto: itrcweb.org

Pfas è una sigla che sta per Sostanze Perfluoro Alchiliche, un gruppo di composti chimici acidi con proprietà impermeabilizzanti, ovvero rendono gli oggetti resistenti ad acqua e grassi. Per questo motivo dagli anni ’50 sono stati molto utilizzati in vari campi industriali, da quello dell’abbigliamento tecnico a quello alimentare (le famose padelle antiaderenti). All’interno di questa famiglia troviamo diversi composti, ma i più diffusi e pericolosi sono il PFOA e il PFOS: molto persistenti nell’ambiente, perché non sono biodegradabili (Greenpeace ne ha trovato tracce perfino sulle cime dell’Himalaya!), hanno anche una serie di conseguenze dannose per la salute.

Essendo sostanze relativamente recenti, gli studi sulla tossicità sono ancora in corso, ma poco rassicuranti. I Pfas vengono correlati a malattie metaboliche, come diabete e aumento del colesterolo; sono sospettati di essere cancerogeni, favorendo lo sviluppo di alcuni tipi di tumore come quello a reni, testicoli e prostata; soprattutto, sono accusati di essere interferenti endocrini, ovvero compromettono il corretto funzionamento del sistema ormonale e, di conseguenza, si hanno patologie tiroidee, alterazione nella crescita, problemi di infertilità. Il Prof. Carlo Foresta, professore di Endocrinologia dell’Università di Padova, sostiene che i Pfas riducono la fertilità nella donna, o possono causare aborti spontanei o malformazioni congenite nel nascituro, tanto che in Veneto le nascite sono calate del 25% negli ultimi 10 anni (è vero che il calo c’è stato ovunque, per tanti motivi, ma la media italiana degli ultimi 10 anni è -4%!). Lo scorso novembre invece era stata presentata una ricerca, realizzata sempre dal Prof. Foresta insieme alla sua équipe, che dimostrava come questi composti chimici riducono di oltre il 40% l’attività del testosterone negli uomini.

 

LA STORIA DELLA CONTAMINAZIONE

Foto: possibile.com

Ma come si è entrati a contatto con i Pfas? Semplice, attraverso il consumo della normale acqua potabile, perché gli abitanti di quella che oggi viene chiamata la “zona rossa” del Veneto, a cavallo tra le province di Verona, Vicenza e Padova, per decenni hanno tranquillamente bevuto l’acqua inquinata che usciva dai rubinetti delle loro case, così come gli agricoltori e gli allevatori della zona l’hanno utilizzata per irrigare i campi e dar da bere agli animali, del tutto ignari della situazione di pericolo in cui si trovavano.
All’origine dell’inquinamento ci sono le attività della Miteni Spa, un’industria chimica di Trissino (VI) fondata nel 1965, che realizzava prodotti contenenti Pfas; fu costruita proprio sulla falda acquifera da cui attingono le tre province dell’attuale zona rossa, e per anni vi ha sversato gli scarti industriali (complice l’assenza di una normativa specifica), perciò è facile comprendere come l’acqua si sia contaminata.

L’emergenza Pfas è venuta però alla luce solo sei anni fa, nel 2013, quando grazie a uno studio del CNR, che ha analizzato le acque di falda, superficiali e potabili nella zona, si scoprirono concentrazioni elevatissime di questi composti, individuando come fonte principale gli scarichi della Miteni.
Eppure, secondo Greenpeace, qualcuno era a conoscenza del problema già da tempo, ma lo ha taciuto alla popolazione. Prima fra tutti, l’azienda, che ha fatto eseguire delle indagini per valutare l’inquinamento intorno ai propri scarichi e, in base ai risultati, ha richiesto di installare nuove barriere per limitare la contaminazione; in questi lavori sono stati coinvolti alcuni tecnici di Arpav (Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente del Veneto), che però non hanno approfondito la questione. Questo avveniva all’inizio del 2006. Prima ancora, a partire dal 2003, la Provincia di Vicenza ha condotto delle ricerche sullo stabilimento della Miteni, ma inspiegabilmente gli esiti non sono stati comunicati ad Arpav. Non solo quindi i lavori di bonifica sarebbero dovuti partire da almeno 15 anni, ma nessuno ha avvisato gli abitanti dei Comuni coinvolti, nemmeno in base al semplice principio di precauzione.

 

LA SITUAZIONE ATTUALE (IN VENETO E NON SOLO)

Foto: officinadeisaperi.it

Con lo studio del CNR comunque la bomba è esplosa, e anche le autorità non hanno potuto più ignorarla. I monitoraggi eseguiti hanno permesso di individuare la “zona rossa”, un’area fra le tre province venete che ricopre ormai 180.000 chilometri quadrati. Dal 2015 la Regione Veneto, coordinandosi con le Ussl locali, realizza programmi di screening sulla popolazione esposta, iniziando dall’area rossa; gli esami del sangue rivelano concentrazioni altissime di Pfas nel 65% dei casi, con una media di 64 nanogrammi/grammo (per capirci, la media nelle persone al di fuori dell’area dell’inquinamento è di 2-3 nanogrammi/grammo). La zona a rischio però è più vasta della sola area rossa, e si espande sempre di più. Nel 2018 la giunta del Veneto ha allargato la mappa dei siti contaminati, aggiungendo altre due aree (una arancione e una gialla) che rappresentano i diversi gradi di inquinamento.
Nello stesso anno il Consiglio dei Ministri ha dichiarato lo stato di emergenza, su richiesta di Luca Zaia (Presidente della Regione Veneto); inizialmente di 12 mesi, quest’anno ha ottenuto una proroga. I finanziamenti serviranno per la costruzione di nuovi acquedotti, che sostituiranno quelli contaminati, prelevando acqua da altre zone del Veneto. Peccato solo che per questi lavori occorreranno diversi anni, e la necessità di una bonifica sia piuttosto urgente. ISPRA ha valutato in 136 milioni di euro il disastro ecologico causato dalla Miteni; una cifra che probabilmente non pagherà mai, dal momento che a ottobre 2018 ha presentato istanza di fallimento.

 

Un disastro che non riguarda però solo il Veneto, ma tutti noi. L’acqua contaminata sta entrando nella catena alimentare, perché è usata in agricoltura e negli allevamenti, per la produzione di cibi che finiscono sulle tavole di tutta Italia e d’Europa. Insomma, un enorme problema di ambientale e di salute pubblica che, come spesso accade, si sarebbe potuto evitare (o almeno limitarne le conseguenze) se non ci si nascondesse dietro un muro d’omertà.

 

Foto copertina: italiachecambia.org

 

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