La plastica accumulata negli oceani costituisce una grave emergenza ambientale anche per via degli inquinanti che trasporta: vediamo quali sono e i loro effetti.
“Quando l’ultimo albero sarà abbattuto, l’ultimo pesce pescato, l’ultimo fiume avvelenato, vi accorgerete che non potrete mangiare il denaro”.
Celebre frase del capo tribù dei Sioux Hunkpapa, vissuto circa due secoli fa, che si è rivelata tristemente profetica: l’essere umano ha dimostrato di essere disposto ad accettare un inquinamento, forse irreversibile, in cambio del tornaconto generato dalla scoperta di un materiale estremamente conveniente ed economico da produrre.
Parlo della plastica, i cui numerosi polimeri (ne esistono oltre 20) sono stati creati a partire dal 1870; la sua produzione non ha conosciuto battute d’arresto, anzi, è aumentata in maniera esponenziale. Nei report di UNEP (Programma Ambientale delle Nazioni Unite) si legge che, dagli anni ’50 ai giorni nostri, sono stati realizzati oltre 8.3 miliardi di tonnellate di plastica, e solo il 9% dei rifiuti è stato riciclato (in questo post avevamo approfondito il destino dei rifiuti in plastica che ricicliamo, già di per sé problematico), il 12% è stato incenerito, mentre la maggior parte (il 79%) si è accumulato nell’ambiente. Oggi vengono prodotti circa 300 milioni di tonnellate di rifiuti in plastica ogni anno: l’equivalente in peso dell’intera popolazione mondiale. I rifiuti, provenienti per lo più dalla terraferma, viaggiano fino al mare e a volte vengono catturati dalle correnti oceaniche, creando delle zone di accumulo chiamate “isole di plastica”: la principale si trova nell’Oceano Pacifico ed è nota come Great Pacific Garbage Patch, la cui estensione pare essere come quella della penisola iberica.
Foto: “Atlante mondiale della zuppa di plastica”, di Michiel Roscam Abbing
Purtroppo, una volta che le plastiche finiscono in mare, sono quasi impossibili da recuperare e vi resteranno per secoli: le caratteristiche chimiche della plastica, che la rendono un materiale pratico e durevole a lungo, fanno anche sì che non si degradi completamente, ma al massimo si decomponga in particelle via via sempre più piccole, “un nemico invisibile e silenzioso”, come le ha definite Arpae. Invisibile perché i frammenti chiamati microplastiche hanno un diametro inferiore ai 5 mm, e sono impercettibili all’occhio umano. Sono il tipo di plastica numericamente più abbondante: l’ONU ha dichiarato che negli oceani ci sono 51.000 miliardi di microplastiche, 500 volte tanto il numero di stelle presenti nella nostra galassia. Sono proprio le loro dimensioni a renderle così insidiose per la fauna selvatica, perché pesci, uccelli e altri organismi marini le scambiano per cibo, con conseguenze a volte letali. E non mi riferisco solo ai pericoli fisici come ingestione, soffocamento o intrappolamento nei cosiddetti “ghost gear” (attrezzi fantasma), come reti da pesca o imballaggi; esiste anche una serie di pericoli chimici legati agli inquinanti che la plastica porta con sé.
Inquinamento chimico da microplastiche
Il 78% delle sostanze chimiche elencate come inquinanti prioritari da parte dell’EPA è associato ai rifiuti plastici marini. Nonostante la plastica sia considerata un materiale inerte, la maggior parte dei manufatti non sono puri: durante i processi di produzione vengono aggiunte varie sostanze chimiche (che possono rappresentare fino al 70% del peso) che servono a donare particolari proprietà; quando la plastica si degrada, gli additivi si diffondono in mare. Molti di questi additivi sono riconosciuti come pericolosi, ad esempio gli ftalati, utilizzati per rendere flessibile la plastica e aggiunti soprattutto agli oggetti in PVC, e il bisfenolo A (BPA), usato come rivestimento per diversi materiali a contatto con gli alimenti; la loro pericolosità sta nell’essere interferenti endocrini, ovvero “sostanze chimiche che possono alterare il normale equilibrio ormonale” (definizione di ISS), nei confronti della fauna selvatica ma anche dell’uomo.
Esiste anche un’ulteriore fonte di inquinanti, forse meno nota degli additivi. I frammenti di plastica possono adsorbire (ovvero accumulare sulla propria superficie) sostanze persistenti, bioaccumulabili e tossiche presenti in ambiente, per poi rilasciarle in un secondo momento, anche all’interno degli organismi che le hanno ingerite. Un esempio è dato dai policlorobifenili, noti con la sigla PCB, composti di sintesi che hanno avuto ampie applicazioni industriali fino agli anni ’70, quando si è iniziato a sospettare della loro tossicità. La produzione e la commercializzazione di manufatti contenenti PCB sono ormai vietate in molti Paesi del mondo e nel 2013 lo IARC ha modificato la loro classificazione, dal Gruppo 2A (“Probabili cancerogeni umani”) al Gruppo 1, quello dei “Cancerogeni umani”; ciò nonostante, nel mondo restano ancora 14 milioni di tonnellate di materiali contenenti PCB da smaltire, che corrispondono all’83% di quelli immessi.
Le conseguenze
Gli impatti sull’ambiente e sulla salute, umana compresa, non sono ancora del tutto noti. Le microplastiche sono contaminanti emergenti, non esistono né una legislazione che ne fissi un valore limite, né tecniche analitiche ufficiali. I contaminanti associati ai frammenti di plastica in mare sono numerosi, e occorre non solo indagare la tossicità delle singole sostanze, ma anche l’effetto cumulativo dell’intera miscela; inoltre, alcuni composti costituiscono un pericolo anche quando presenti a basse concentrazioni, perché una sostanza bioaccumulabile e persistente ha la capacità di biomagnificare, ovvero portare a effetti tossici più elevati man mano che si accumula negli organismi superiori.
Al momento, quindi, non è ancora possibile definire in maniera esaustiva il rischio che le microplastiche rappresentano.
Foto: Legambiente
Quello che sappiamo è che le microplastiche minacciano la sopravvivenza di oltre 800 specie, tra cui plancton, mitili, coralli, ma anche grandi animali come cetacei e tartarughe, e che la loro assunzione interessa tutta la catena alimentare, comprese le specie ittiche che arrivano fino alle nostre tavole; l’esposizione al “cocktail di contaminanti” associati alle microplastiche è maggiore nel caso di crostacei e molluschi bivalvi, che consumiamo interi, compreso il tratto digerente in cui sono generalmente presenti i frammenti. I pericoli però non provengono solo dalle specie ittiche o dagli alimenti di origine marina come sale e alghe: queste particelle sono state trovate in molti alimenti e bevande, compresi birra, miele, acqua in bottiglia e del rubinetto, frutta e verdura, soprattutto se coltivate in serra. Secondo un’indagine realizzata da un gruppo di ricercatori australiani dell’Università del Newcastle, ingeriamo in media circa 2.000 pezzi di microplastica ogni settimana.
Foto: Il Salvagente
I rischi legati alla plastica in mare non si esauriscono con quelli di tipo fisico e chimico, perché ne esiste anche uno batteriologico: di recente si è scoperto che proprio alle grazie a proprietà come la resistenza e l’idrofobicità, le microplastiche sono l’ambiente ideale per una grande vastità di comunità microbiche. Colonizzando le superfici, creano un vero e proprio habitat, chiamato plastisfera, che potrebbe essere collegato a un altro grave problema, quello della antibiotico-resistenza.
Un tema che merita sicuramente un approfondimento a parte: ne parleremo presto qui su Ecocentrica!
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