Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità circa il 10-12% delle coppie nel mondo soffre di infertilità e in Italia questa stima tocca il 15%. Ed è proprio di infertilità che oggi voglio parlarvi, perché anche questa si annovera tra i tanti effetti dell’inquinamento ambientale.
Siamo ciò che mangiamo, diceva, in effetti, il filosofo tedesco Feuerbach, in occasione di una recensione dedicata al “Trattato dell’alimentazione per il popolo”, pubblicato nel 1850 e scritto dall’illustre fisiologo olandese Jakob Moleschott. Naturalmente siamo molto di più. La nostra individualità è il frutto delle esperienze che maturiamo, delle relazioni che intessiamo e, da un punto di vista biologico, oltre al corredo genetico che ci portiamo dietro, anche da tutto ciò che transita nel nostro organismo.
Alcuni fattori ambientali dal potere contaminante penetrano nel corpo anche a nostra insaputa causando, soprattutto nelle fasi della vita in un cui avvengono dei passaggi delicati (come lo sviluppo intrauterino o la pubertà), delle disfunzioni ormonali che provocano alcune patologie andrologiche e ginecologiche, tra cui l’infertilità.
Gli interferenti endocrini, questi sconosciuti.
Già dagli anni ‘90 l’Unione Europea ha iniziato a interessarsi di fattori ambientali nocivi e di come questi condizionino il nostro organismo. Nel 1998 nasce la prima strategia comunitaria in materia di sostanze che alterano il sistema endocrino ma è solo dal 1 giugno 2007, con il regolamento REACH, che si chiariscono i criteri per l’identificazione e la valutazione di queste pericolose molecole.
Gli interferenti endocrini (EDC- Endocrine disrupting chemicals) sono sostanze che esistono anche in natura, come gli stessi ormoni prodotti dall’organismo (testosterone e estrogeni), e trovano impiego in farmaci e fitofarmaci per trattare patologie del sistema endocrino o modificarne le funzionalità (esempio classico è quello delle pillole anticoncezionali).
Gli interferenti endocrini di origine artificiale, invece, derivano da processi di combustione o da processi industriali. L’intrusione nel corpo di queste sostanze, che possiamo trovare nel terreno, nell’acqua, nell’aria ma anche negli alimenti, altera le attività del nostro sistema endocrino, responsabile non da solo della regolazione e del controllo di fondamentali funzioni fisiologiche, come il metabolismo, il comportamento, l’immunità e la riproduzione.
L’apparato endocrino è costituito principalmente da tre componenti: le ghiandole, localizzate in varie parti del corpo che secernono gli ormoni; questi ultimi che regolano le funzioni dei tessuti; infine i recettori, proteine transmembrana o intracellulari che si legano agli ormoni.
Il meccanismo d’azione
Gli interferenti endocrini si sostituiscono e imitano il comportamento degli ormoni inviando segnali falsati. Questi vengono captati dai recettori, che una volta attivati rimandano di conseguenza un feedback sbagliato agli ormoni, inficiandone la regolare attività. A quel punto il recettore non sarà più in grado di legarsi all’ormone naturale, compromettendone il normale funzionamento con intensità patologiche della sua produzione.
Ma “ingannare” un recettore genera ulteriori anomalie.
In generale possiamo affermare che il meccanismo di azione di questi perturbatori:
- altera il modo in cui gli ormoni arrivano nel sangue;
- attiva una produzione ormonale errata
- imita il comportamento dell’ormone prodotto dall’organismo, inducendo una risposta sbagliata del recettore nei tempi e nei modi (effetto agonistico)
- blocca il recettore, impedendo all’ormone naturale di legarsi (effetto antagonistico)
Ma come agiscono, in particolare, questi interferenti endocrini sul sistema riproduttivo?
Il problema di questi fattori nocivi è che possono persistere nel sangue per molto tempo e creare una condizione di bioaccumulo, come nel caso delle diossine furani e policlorobifenili, che costituiscono tre delle dodici classi di inquinanti organici persistenti, riconosciute a livello internazionale.
Un famoso studio sui meccanismi del bioaccumulo fu quello di uno dei massimi esponenti sull’argomento: Arnold Schecter. Lo studioso della University of Texas Southwestern Medical Center di Dallas riscontrò come, a circa trent’anni dalla fine della guerra in Vietnam, alcune popolazioni del sud avevano ancora dei valori di diossine nel sangue 100 volte superiori al normale. Si trattava dei persistenti effetti di una miscela tossica composta in parti uguali da acido diclorofenossiacetico e acido triclorofenossiacetico, che generava diossine, il famigerato “Agente Arancione”, un erbicida sviluppato per scopi militari e utilizzato per applicazioni in territori con clima tropicale.
Altra considerazione importante è l’effetto antagonistico. Se un distruttore endocrino blocca per lungo tempo l’attività di un recettore, rischia di atrofizzare un apparato nel suo complesso, impedendo così un ritorno al suo completo funzionamento.
Da un punto di vista del sistema riproduttivo si stanno ancora effettuando degli studi in merito, ma certamente possiamo considerare il bisfenolo A (BPA), i ftalati, le diossine, i pesticidi, l’inquinamento atmosferico, i prodotti chimici per il fracking e i parabeni come modificatori dei parametri di fertilità. Per gli uomini questi parametri sono: la quantità del liquido seminale prodotta, la capacità di azione e la morfologia.
Per quanto riguarda i parametri femminili, sono state riscontrate delle associazioni tra la contaminazione di queste sostanze (ad esclusione dei parabeni) e la riduzione della riserva ovarica (la capacità delle ovaie di produrre ovuli che possono essere fecondati), alcuni disturbi riproduttivi come la sindrome dell’ovaio policistico, l’endometriosi e i fibromi uterini. Ma anche problematiche relative agli esiti di una gravidanza, come per esempio parti pretermine e aborti spontanei.
Ma quali sono e dove si trovano gli interferenti endocrini che mettono più a rischio la fertilità maschile e femminile?
Uno studio realizzato dal Dipartimento di Bioscienze Comparate dell’Università dell’Illinois ne ha identificato un elenco:
- Il bisfenolo A (BPA) è una sostanza chimica usata prevalentemente in associazione con altre per fabbricare plastiche e resine. La possiamo trovare soprattutto nei contenitori per le vivande.
- Gli flatati derivano dal petrolio e si usano sia come plastificanti, sia come aggreganti o solventi, ad esempio, nello smalto per unghie.
- Un recente report dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) ha stimato che in Italia ogni anno si usano ancora circa 114.000 tonnellate di pesticidi, sostanze chimiche che arrivano direttamente sulle nostre tavole.
- Inquinamento e polveri sottili: l’ultimo rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) “Ambient Air Pollution: a global assessment of exposure and burden of disease” pubblicato nel 2016 attesta che il 92% della popolazione mondiale vive in luoghi in cui i livelli di qualità dell’aria superano i limiti dell’OMS.
- Le diossine, sostanze prodotte involontariamente, provengono da processi naturali di combustione (come gli incendi di foreste o le emissioni di gas dei vulcani). Sfortunatamente la loro elevata stabilità chimica gli permette di perdurare nel tempo e creare quelle condizioni di bioaccumulo di cui vi parlavo sopra.
- Fluidi per il fracking. Questa tecnica estrattiva di petrolio e gas naturali, si avvale di sostanze chimiche e getti d’acqua per provocare la fratturazione degli strati più profondi nel terreno, così da facilitare l’estrazione di queste risorse. La fratturazione idraulica richiede un’ampia quantità di apparecchiature, tra cui dei miscelatori per fluidi. Questi sono composti per il 97% da acqua, ma anche da additivi chimici e proppants (piccole particelle solide utilizzate per mantenere aperte le fratture nella formazione rocciosa dopo che la pressione dell’iniezione si è attenuata). Sebbene la maggior parte degli stati con produzione di petrolio e gas ora abbia regole che richiedono la divulgazione delle sostanze chimiche utilizzate nel fracking, tali regole spesso contengono esclusioni per “informazioni commerciali riservate” (CBI), che possono essere utilizzate per proteggere l’identità di sostanze chimiche considerate segreti commerciali.
Cosa possiamo fare noi
Certo è che molti contaminanti antropogenici, ovvero quelle sostanze inquinanti derivate, in modo diretto o indiretto, da attività umane, sono ancora in fase di valutazione (a questo link trovate il post in cui vi avevo parlato delle sostanze cancerogene ancora in uso) e occorre continuare a raccogliere dati, così da innescare un processo virtuoso che ne circoscriva gli effetti nocivi e induca a risposte di salute pubblica condivise.
Il mio consiglio è sempre avere un approccio più ecocentrico e a 360°, una visione critica e consapevole sui nostri consumi, tenendo ben a mente che è il nostro stesso impatto antropico a determinare quello che siamo oggi e ciò che saremo domani.
No Comments