Ratti, conigli, cavie, furetti, sono solo alcuni esempi di animali utilizzati come cavie da laboratorio, un numero che in Italia si attesta intorno ai 600 mila esemplari, quasi 9 milioni in tutta Europa.
Ma per alcuni di loro al termine degli esperimenti è possibile avere una seconda vita domestica oppure essere reintrodotti in un habitat naturale adeguato. Ma ci sono delle regole ben precise.
Quando si può e quando non si può
La vivisezione nel nostro Paese è regolamentata dalla Direttiva 2010/63/UE sulla protezione degli animali utilizzati a fini scientifici (qui il sommario ufficiale), ma fu solo con il Decreto legislativo 26/14 che, agli animali reduci dalle sperimentazioni o non più applicabili in tali procedure, fu concesso di essere inseriti realmente in programmi di riabilitazione per l’affidamento a persone che possano prendersene cura e salvarsi dall’eutanasia.
Le regole da seguire sono anzitutto di avere un certificato redatto da un medico veterinario che deve identificare l’habitat o l’allevamento (senza fini produttivi) adeguato per il peloso in questione, garantendo:
- Lo stato di salute dell’animale.
- La mancanza di pericolo per la sanità pubblica o l’ambiente circostante.
- L’adozione di misure per il benessere dell’animale legate alla sua cura.
- La predisposizione di un programma di riabilitazione che ne assicura la socializzazione e il reinserimento in natura o in un ambiente domestico gestito da strutture competenti.
Ma quali sono queste strutture competenti?
In calce a queste indicazioni nel decreto ci stava un ultimo comma non ben specificato fino allo scorso marzo:
Con il decreto del Ministro, sono individuati i requisiti strutturali e gestionali per lo svolgimento delle attività di cui al comma 1 (chi veramente era interessato) decreto applicativo.
Una nebulosa e mancanza di direttive tecniche durata 8 anni che di fatto è stata l’espediente che ha frenato stabilimenti di questo tipo a sviluppare dei protocolli interni per garantire la libertà degli animali ammissibili ma, che al tempo stesso, ha visto l’emergere di numerose associazioni di tutela a riguardo.
Le scuole della libertà
Un esempio positivo da raccontare nasce tra i laboratori dell’Università di Pisa.
Già dal 2014 l’Unità Etica e di Benessere Animale è stata la prima e forse l’unica a impegnarsi seriamente in questo compito e adempiere alle pratiche burocratiche, sanitarie e tecniche per rendere adottabili le loro cavie.
D’altronde chi più di una struttura come un laboratorio ha le carte in regola e le facilitazioni per assolvere questo incarico?
Con il nuovo Decreto del Ministero dell Salute del 21 dicembre 2021, entrato in vigore a marzo 2022, finalmente tutto diventa più chiaro e vengono messe nero su bianco le norme per “il reinserimento e reintroduzione degli animali utilizzati o destinati a essere utilizzati per fini scientifici”.
Oggi esiste una lista di strutture competenti che si occupano di rieducazione fisica e sociale di animali selvatici e non, provenienti da questi contesti, e tra queste vorrei nominare La Collina dei Conigli, associazione animalista che da anni si impegna nel garantire una vita dignitosa a chi nel bene o nel male è stato sfruttato nella sperimentazione scientifica.
Ma adottare un animale da laboratorio è davvero sicuro?
Certamente dopo il Covid19, la parola zoonosi è entrata nel vocabolario comune così come la sfiducia nei confronti della sicurezza sanitaria, ma adottare un animale da laboratorio è in realtà sicurissimo.
Sono gli unici pet, infatti, ad avere un “passaporto sanitario” certificato e un percorso di rieducazione effettuato da personale qualificato. La loro adozione (anche a distanza) e recupero significa letteralmente salvare loro la vita, ricambiare con le nostre cure e affetto per l’impegno e l’ingrato compito che gli è stato assegnato.
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