Punto di vista

Bioplastiche: cosa sono? Un po’ di chiarezza


Si sente parlare sempre di più di bioplastiche, come alternativa alla plastica tradizionale: scopriamo di cosa si tratta, quali sono i vantaggi e come riconoscerle.

L’uso della plastica è un problema ormai noto a tutti, e sta assumendo proporzioni sempre più imponenti, tanto che l’UNEP (il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) ha creato un elenco di 6 emergenze ambientali e vi ha inserito anche l’inquinamento creato dai rifiuti di questo materiale. Ogni anno, a livello mondiale, ne vengono prodotti circa 300 milioni di tonnellate: parliamo dell’equivalente in peso dell’intera popolazione mondiale! Purtroppo, a una produzione di plastica sempre più massiccia, non si affianca di pari passo un corretto smaltimento e recupero: non illudiamoci, anche i comportamenti più virtuosi in termini di raccolta differenziata possono portare a un accumulo nell’ambiente, perché il sistema di riciclo ha diverse criticità e spesso i nostri rifiuti vengono spediti in Paesi che non vantano certo impianti di trattamento efficienti (in questo post avevamo parlato dell’interessante inchiesta di Greenpeace su dove finiscono i nostri rifiuti in plastica).

L’impatto ambientale della plastica è legato sicuramente alla sua persistenza in ambiente per via della lenta degradazione, che spesso porta a una frammentazione in particelle via via sempre più piccole e alla formazione di micro e nanoplastiche, che sono sotto la lente di ingrandimento degli studiosi perché considerate inquinanti emergenti.
L’altro grande problema è la generazione di questo materiale sintetico e la materia prima da cui è ottenuto, perché oltre il 99% dei polimeri è creato a partire da derivati del petrolio, gas naturale e carbone, tutte fonti fossili e non rinnovabili. Un Report pubblicato dall’Agenzia europea dell’ambiente nel 2020 stimava una previsione per il futuro: oggi l’industria della plastica consuma circa il 7% delle riserve di petrolio, ma se la produzione manterrà l’attuale tasso di crescita, nel 2050 la percentuale diventerà il 20%.

Esistono alcune eccezioni, rappresentate dalle cosiddette bioplastiche, di cui si sente parlare sempre più spesso: ma sono davvero la panacea per tutti i mali, la soluzione ai tanti impatti negativi causati dalla plastica? Facciamo un po’ di chiarezza.

Cosa sono le bioplastiche

Questo termine in realtà non è univoco, ma rappresenta più di un tipo di materiale. La definizione più utilizzata è quella della European Bioplastics, associazione che rappresenta questo settore industriale in Europa: possiamo indicare con bioplastica sia la plastica bio-based (tradotto in italiano come “a base biologica”), sia quella biodegradabile, sia con entrambe le caratteristiche.

  • Le plastiche bio-based sono ottenute da biomassa, spesso proveniente dall’industria agroalimentare (ma esistono interessanti esperimenti con le alghe): ad esempio, è possibile produrre il Polietilene (PE) partendo da materie prime come la cellulosa o la canna da zucchero. Queste però non sono necessariamente biodegradabili: qualunque sia la materia prima che l’ha originato, la struttura chimica del PE non cambia e non sarà mai biodegradabile né compostabile; quindi i concetti di bio-based e di degradabilità in ambiente non sono sempre correlati.
  • Viceversa, esistono polimeri biodegradabili che però sono ottenuti a partire da risorse fossili.
  • Nella migliore delle ipotesi, ci troviamo davanti a una plastica che è sia bio-based, sia biodegradabile e/o compostabile. Non diamo però per scontato che sia sempre così.

Quali sono le migliori dal punto di vista ambientale? Vantaggi e svantaggi

Sicuramente, un punto a favore delle plastiche bio-based è che sono ottenute da fonti rinnovabili, le quali sostituiscono i composti di origine fossile: riducono l’impatto ambientale a monte del processo produttivo, perché non richiedono petrolio, anche se dal punto di vista del fine vita non cambia sostanzialmente nulla, restano sempre composti persistenti, con tutte le problematiche che ne derivano (se avete perso il post sugli inquinanti rilasciati da plastica e microplastiche, lo trovate al link).
Nella lista dei “pro” possiamo inserire la maggior sicurezza per la salute, considerando che la plastica è il materiale più utilizzato per il packaging alimentare: se materiali come il PVC possono contaminare gli alimenti con gli ftalati, pericolosi interferenti endocrini, il bio-packaging è invece innocuo perché completamente naturale. Per contro, una delle principali obiezioni che viene fatta è che l’uso della biomassa per produrre questo materiale (così come per il riscaldamento, l’energia elettrica e i bio-carburanti) è poco etico perché sottrae risorse all’agroalimentare; inconveniente che però si può evitare utilizzando, come fanno molte aziende attente alla sostenibilità, gli scarti di produzione: un ottimo esempio di economia circolare.

Il vantaggio delle plastiche biodegradabili, o ancora meglio compostabili, è chiaro: non rimangono in ambiente per 100-1000 anni rilasciando sostanze pericolose per gli ecosistemi. Non riducono però l’impiego di composti di origine fossile, perciò anche la sola produzione è responsabile di un aumento delle emissioni di CO2 e conseguentemente di un contributo al cambiamento climatico.

Foto: Centre for Environmental Law

È evidente quindi che, analizzando tutto il ciclo produttivo, le migliori bioplastiche risultano essere quelle bio-based ma anche biodegradabili o compostabili.

Come riconoscere le plastiche bio-based e biodegradabili (e come smaltirle)

È possibile ottenere polimeri come il PE o il PET a partire da biomassa: potete trovarli indicati come Bio-PE, Bio-PET, o con nomi commerciali (Terralene®, materiale a base di PE da fonti rinnovabili). Per la gestione dei rifiuti non cambia nulla: vanno trattati come i loro “corrispettivi” da fonti fossili e destinati alla raccolta della plastica.

Un po’ diverso il discorso per le plastiche biodegradabili e/o compostabili. Innanzitutto, bisogna chiarire la differenza fra questi due termini: la normativa europea (EN 13432 del 2002) ha stabilito che un prodotto può essere definito biodegradabile se si dissolve almeno per il 90% entro 6 mesi, e compostabile se ciò avviene entro 3 mesi. Quindi, un materiale compostabile è anche biodegradabile, ma non viceversa. Riconoscerli è semplice: devono riportare la definizione “Biodegrabile” (o entrambe, “Biodegradabile e compostabile”), fare riferimento alla norma europea (UNI EN 13432:2002) e avere almeno un simbolo di uno degli enti certificatori.

Foto: Legambiente

Tra le plastiche bio-based e compostabili più impiegate a larga scala troviamo ad esempio l’acido polilattico, un polimero ottenuto da mais, barbabietola o canna da zucchero, e utilizzato soprattutto per i contenitori per alimenti; lo riconoscete dalla sigla PLA. Tra le più famose, invece, ci sono quelle brevettate dall’azienda Novamont sotto il nome Mater-Bi®, utilizzate per i sacchetti della spesa e, da gennaio 2018, per quelli del reparto ortofrutta.

Come si smaltiscono questi materiali? Le plastiche che sono solo biodegradabili vanno comunque conferite nella raccolta della plastica; i materiali compostabili invece, indipendentemente dal fatto che siano ottenuti da fonti fossili o da materie prime rinnovabili come il Mater-Bi®, possono essere trattati negli impianti di compostaggio insieme ai rifiuti organici e trasformati in fertilizzante, perciò li possiamo buttare nel contenitore dell’umido. Occorre però fare sempre una verifica per sicurezza: spesso le bioplastiche sono costituite da diversi materiali, quindi meglio attenersi di volta in volta alle indicazioni in etichetta.

Insomma, anche in versione “bio” la plastica non è un materiale sostenibile al 100%: io rimango sempre fermamente convinta che, come consumatori, dovremmo fare del nostro meglio per ridurne in ogni caso l’utilizzo. E comunque, anche se biodegradabili o compostabili, i rifiuti non vanno mai e poi mai abbandonati nell’ambiente!

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