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Bioplastiche: quali sono le migliori?


In giro ce ne sono tante, ma non tutte sono uguali: ecco come riconoscerle!

Con la messa al bando dei sacchetti di plastica nel 2012, negli anni si è cercato di trovare delle valide alternative ai polimeri derivanti da fonti fossili. Una delle risposte più a portata di mano sono state le bioplastiche. Per molti però, ancora oggi, capire quali sono e distinguere questo materiale dalla normale plastica non è così scontato, considerando che ne stanno creando sempre di più, e non tutte sono uguali o 100% ecologiche. A complicare ancora di più la situazione è il fatto che non esiste una legge europea che precisi l’etichettatura ambientale di una bioplastica, fatta eccezione per quella biodegradabile e compostabile, che per essere tale, deve essere conforme alla normativa europea EN 13432. Ogni altra dicitura o sigla sui prodotti va quindi studiata con cura perché, come in altri campi del greenwashing, anche quella delle bioplastiche richiede parecchia attenzione. 

Nello specifico:

  • Una bioplastica non è per forza biodegradabile 
  • Non è necessariamente costituita al 100% da materia prima rinnovabile 
  • Una bioplastica compostabile può derivare e/o contenere anche plastiche da fonti fossili tradizionali
  • Una bioplastica compostabile non avrà gli stessi tempi e modalità di degradazione se sottoposta al compostaggio in un impianto industriale o nel giardino di casa, per quello servono bioplastiche certificate compostabili per il compostaggio domestico
  • Solo alcune bioplastiche si biodegradano rapidamente in natura in tempi e con modalità tali da non consentirne l’accumulo, né effetti dannosi agli organismi viventi con cui vengono in contatto
  • Biodegradabile non significa per forza innocuo per l’ambiente (basti pensare ai saponi e ai prodotti per la pulizia)

Per fare un po’ di chiarezza sull’argomento l’istituto olandese Wageningen University & Research ha prodotto un documento in merito, suddividendo le bioplastiche in tre categorie:

  • BIO-BASED

Con Bio-Based si intende un materiale “interamente o parzialmente ricavato da biomassa vegetale” per cui sono stati sostituiti alcuni elementi di origine fossile (petrolio o carbone) con componenti di origine naturale. Questa tipologia di plastica ha come obbiettivo l’abbassamento e/o l’eliminazione dell’utilizzo di componenti fossili per la creazione dei polimeri. Tra i materiali più conosciuti aventi queste caratteristiche troviamo il Mater-Bi e il PLA (l’acido polilattico)

  • BIODEGRADABILE

Con Biodegradabile di intende un materiale che può essere aggredito (degradato) da microrganismi come batteri o funghi in presenza di acqua, gas naturali (es. anidride carbonica o metano) o in biomassa. Ma anche in questo caso bisogna fare attenzione: la biodegradabilità dipende dalla struttura molecolare del prodotto finale e non dalla provenienza delle materie prime impiegate per la produzione della bioplastica. Esistono infatti, materiali di origine vegetale come il Bio-PET o il Bio-PE con una struttura che non ne permette la biodegradazione e materiali che derivano da materie prime non rinnovabili, come ad esempio il PBS (polimero semicristallino fabbricato tramite la fermentazione batterica) che invece può esserlo. Per fare un esempio concreto: Il bio-polietilene (Bio-PE), è un materiale bio-based prodotto tramite la lavorazione della canna da zucchero, ma attraverso una serie di processi chimici diventa identico al polietilene (PE) d’origine fossile, diventando così non biodegradabile. Discorso diverso per l’acido polilattico, il PLA, altro materiale bio-based, ottenuto dall’amido di mais, dal quale si ricava destrosio (zucchero) che attraverso la fermentazione diviene acido lattico. Questo si trasforma a sua volta in dilattide (acido lattico) che attraverso un processo di polimerizzazione diventa alla fine un poliestere (materiale plastico) mantenendo la biodegradabilità iniziale dell’amido di mais. 

  • COMPOSTABILE

Un materiale è definito compostabile quando, per essere smaltito, è conforme alle caratteristiche della compostabilità nella norma EN 13432, i cui paletti principali sono: 

  • Deve degradarsi almeno del 90% in 6 mesi, in frammenti più piccoli di 2mm per lato 
  • Non deve produrre effetti negativi sul processo di compostaggio
  • Deve presentare concentrazioni di metalli pesanti bassissime

Tra i materiali più diffusi troviamo il Mater-bi, a base di amido di mais, ma ci sono tante altre sigle poco diffuse ottenute dal grano, dalla tapioca o dalle patate.

Alle luce di queste classificazioni, le migliori bioplastiche, in base al loro impatto ambientale, sono sicuramente quelle biodegradabili e compostabile, a base di amido e che presentano quindi un alto valore di Lca (Life cicle assestement) ovvero una valutazione ottima dell’impatto ambientale nell’intero ciclo di vita del prodotto. Oltre ad avere un codice di riferimento facilmente riconoscibile. Inoltre il rifiuto compostabile, quando viene inviato agli impianti industriali per essere trasformato in compost, usato in agricoltura permette di restituire carbonio ai suoli, sempre più in via di desertificazione a causa dell’uso eccessivo della chimica e della crisi climatica.

La prima tra queste è sicuramente il Mater-Bi, la famiglia di bioplastiche brevettate e commercializzate dall’italianissima Novamont. Questo tipo di bioplastica è tra le migliori perchè viene prodotta principalmente da scarti agricoli e solo una parte da colture dedicate, escludendo categoricamente l’utilizzo di mais OGM. Il Mater-Bi negli anni è stato utilizzato in molti ambiti, come la produzione di imballaggi, giocattoli, posate, stoviglie e sacchetti, sostituendo degnamente la plastica.

Un’altra bioplastica che ha un alto grado di sostenibilità è il PLA, l’acido polilattico, la bioplastica prodotta dall’americana NatureWorks Ingeo. E’ un materiale derivato dalla trasformazione degli zuccheri presenti in mais, barbabietola, canna da zucchero e altri materiali naturali e rinnovabili e non derivati dal petrolio. Ha caratteristiche simili al poliestere e al PET, infatti molto spesso viene scambiata per plastica, in quanto è trasparente, lucida e con ottime caratteristiche di resistenza. Si degrada in circa 50 giorni in un centro di compostaggio trasformandosi in terriccio e fertilizzante per il suolo. Una nota negativa è la provenienza delle materie prime naturali: colture dedicate che non escludono prodotti OGM.

Altre alternative ai polimeri di origine fossile sono il PHA e il PHB (Poliidrossialcanoati). Per queste due bioplastiche si mettono al lavoro i batteri. Attraverso una colonia batterica nutrita in maniera adeguata affinché si possa sviluppare si ottiene una buona quantità di biomassa. Il Pha è una famiglia di polimeri semicristallini termoplastici biodegradabili e dalle alte performance. Si può lavorare nei processi delle plastiche convenzionali, per cui c’è una sovrapposizione della filiera produttiva a valle della creazione della materia prima, inoltre può avere proprietà differenti, cosa che lo rende flessibile nell’utilizzo. Oltre a ciò il Pha è stabile ai raggi ultravioletti e possiede una bassa permeabilità all’acqua.

Ovviamente tutti questi materiali, non sono la soluzione alla “zuppa di plastica” negli oceani, sono solo un’alternativa all’utilizzo delle fonti fossili. Il punto di partenza è che nessun rifiuto, indipendentemente dal materiale di cui è costituito, deve essere smaltito nell’ambiente. E che, per quanto i tempi di degradazione delle materie plastiche biodegradabili siano più brevi, questi potrebbero comunque essere sufficienti per avere un notevole impatto su fauna e uccelli marini. In sostanza, il miglior rifiuto rimane sempre quello che non si produce.

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