Il punto sulla situazione: cosa abbiamo fatto e cosa dovremmo fare
Abbiamo parlato da poco di alluvioni, nubifragi e dei danni che possono causare: i risvolti tragici hanno più di una causa, perché se da un lato ci sono le precipitazioni torrenziali, dall’altro c’è un terreno fragile che sotto il peso di questi eventi risponde con frane, smottamenti o esondazioni, tristemente sempre più frequenti.
Con dissesto idrogeologico si intendono tutti quei fenomeni naturali che vedono l’interazione tra acqua e suolo, compresa quindi la sua erosione, degradazione e conseguente instabilità (dai pendii fino ai corsi dei fiumi). Ha principalmente due cause che ne hanno amplificato gli effetti negli ultimi decenni: quella naturale, causata dalla maggior frequenza e intensità delle precipitazioni per via dei cambiamenti climatici in atto, che porta ad un aumento dei fenomeni di erosione, e quella artificiale, data dalle attività umane, come consumo di suolo, cementificazione, deforestazione.
Tra queste cause, quelle che hanno sicuramente causato i maggiori danni sono l’eccessiva urbanizzazione e impermeabilizzazione di suolo; un dossier presentato qualche anno fa da FAI e WWF, intitolato “Terra rubata. Viaggio nell’Italia che scompare”, portava alla luce dati allarmanti: le lobby del cemento fanno sparire mediamente 75 ettari di terra al giorno, sottraendoli ad ambiente ed agricoltura, tanto che negli ultimi 50 anni l’area urbana si è moltiplicata di 3,5 volte.
Per non parlare della piaga dell’abusivismo edilizio: dal 1948 gli abusi sono stati 4,5 milioni, di cui una buona parte condonati.
Foto: CNR
Tutto questo fa sì che in Italia l’88% dei Comuni sia considerato a rischio, il che significa che 7 milioni di persone sono in pericolo; come riporta Legambiente, nel 2015 gli eventi legati al dissesto idrogeologico hanno causato 18 vittime, 1 disperso e 25 feriti, più diverse migliaia di persone sfollate e rimaste senza casa.
Quello che lascia senza parole è che si è continuato a costruire anche nelle zone considerate a rischio, non solo industrie ed abitazioni, ma anche strutture come scuole e ospedali. Per migliorare la situazione, quindi, si dovrebbe cominciare a rimediare agli errori del passato, abbattendo e ricostruendo altrove quello che non si può proteggere da frane o alluvioni.
Foto: www.ecoblog.it
Altre opere di messa in sicurezza raccomandate sarebbero quelle di consolidamento dei versanti franosi, il ripristino del naturale corso d’acqua dei fiumi, l’attività di rimboschimento; lavori che, secondo il dossier “Ecosistema Rischio” di Legambiente, stiamo facendo un po’ a rilento, pensando più che altro a “tappare qualche buco”, magari rinforzare un argine per poter edificare nuovamente.
Come afferma Andrea Minutolo, Coordinatore dell’Ufficio Scientifico di Legambiente: «Bisogna cambiare approccio culturalmente e tecnicamente, non basandosi esclusivamente sugli interventi di solo tipo strutturale (come argini, casse di espansione e canalizzazioni), ma ragionando in termini di rinaturalizzazione dei corsi d’acqua e dei versanti dove possibile, e sviluppando piani e strategie di adattamento ai cambiamenti climatici ed ai fenomeni di dissesto nei centri abitati (come delocalizzazioni, riqualificazione urbanistica e del patrimonio edilizio).»
Tutto questo avrebbe un costo (decine di miliardi, secondo il Governo), ma non paragonabile a quello dei danni causati da fenomeni di dissesto idrogeologico: secondo le stime della Protezione Civile, le emergenze dell’ultimo decennio ci sono costate mediamente 800mila euro al giorno (e abbiamo investito meno di un terzo di questa cifra per prevenirli). E parliamo di danni economici, perché quelli in termini di vite umane non sono calcolabili.
Foto: www.linkiesta.it
Insomma, la parola chiave è prevenire. «Negli ultimi anni si sta provando ad uscire dalla logica dell’emergenze a quella della prevenzione. Con #ItaliaSicura, direttamente collegata alla Presidenza del Consiglio e specifica sul dissesto idrogeologico, si stanno razionalizzando sia le risorse economiche disponibili che gli interventi da mettere in campo; ma questo approccio ancora non è sufficiente per mitigare gli effetti del dissesto idrogeologico. Se la manutenzione del territorio e la sua messa in sicurezza non diventano la vera grande opera pubblica italiana, staremo sempre a inseguire le emergenze invece di prevenirle.
Inoltre, la prevenzione passa anche attraverso il concetto di “convivenza con il rischio”, che dovremmo imparare a sviluppare in Italia.»
Continuando a sfogliare il dossier Ecosistema Rischio, scopriamo che non siamo neanche preparati ad affrontare le emergenze: solo il 46% dei Comuni sottoposti all’indagine ha aggiornato il proprio piano d’emergenza negli ultimi due anni, nonostante una legge del 2012 avesse stabilito l’obbligo di farlo entro 90 giorni dalla sua entrata in vigore; soltanto il 31% ha organizzato iniziative dedicate all’informazione dei cittadini e solo il 30% ha realizzato esercitazioni per testare l’efficienza del sistema locale di protezione civile.
Capire che siamo un Paese ad alto rischio, più consapevolezza da parte di istituzioni e cittadini, fermare il consumo di suolo, limitare le emissioni di gas serra che influenzano i cambiamenti climatici, sono tutte cose da fare al più presto.
Ogni volta, dopo una catastrofe naturale, si parla di “tragedia annunciata”, si contano i danni e si piangono le vittime, si dice che avremmo potuto evitarlo eppure si continua a non fare nulla, in pochi giorni tutto torna alla normalità. Fino alla tragedia successiva.
Non sarebbe ora di spezzare questa catena?
Foto copertina: www.meteoweb.eu
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