Non lo si può di certo negare: da qualche anno a questa parte è letteralmente esploso il trend della finta pelle, poiché considerata maggiormente etica rispetto all’analoga di derivazione animale. Complice un’accresciuta sensibilità proprio nei confronti degli animali, ma anche numerose discussioni divenute virali sui social, sempre più consumatori richiedono quella che – purtroppo erroneamente – viene ancora chiamata “ecopelle”. E non si può dire che il mercato non li abbia accontentati, con brand e stilisti pronti ad annunciare in pompa magna di aver eliminato la pelle vera dalle loro collezioni. Eppure, per chi si occupa sia di benessere animale che di tutela ambientale, questo trend non può che far storcere il naso. Perché la pelle finta è sicuramente etica, ma quanto è davvero sostenibile?
Ho quindi deciso di capirne di più, intraprendendo un percorso a dir poco a ostacoli. Non solo perché sull’argomento vi è ancora molta confusione, ma anche e soprattutto poiché i grandi marchi dell’abbigliamento, i loro influencer e le case di moda non sembra si stiano spendendo granché in chiarezza. E così il rischio di imbattersi nel greenwashing è tutto fuorché remoto
Pelle, ecopelle e similpelle: usiamo i termini corretti
Il primo passo per far chiarezza su un argomento tanto complesso è, come facile intuire, quello di utilizzare i termini corretti. Sì, perché ormai la parola “ecopelle” viene utilizzata comunemente come sinonimo di finta pelle, quando così invece non è. Tuttavia, a dirimere la questione ci pensa una legge dello Stato, la numero 8 del 14 gennaio 2013:
- vera pelle: il materiale che si ottiene dalla lavorazione delle pelli di origine animale, tramite concia o altri trattamenti idonei a conservarne inalterata la struttura delle fibre;
- ecopelle: vera pelle lavorata approfittando di conce, trattamenti e altri sistemi a basso impatto ambientale. Ad esempio, la concia e la tinteggiatura vegetali;
- similpelle: tutti i materiali che non si ricavano da derivati animali, ma che vengono sottoposti a trattamenti che li rendono simili, alla vista e al tatto, alla vera pelle.
La similpelle – ovvero la pelle finta – può poi essere divisa in due grandi sottogruppi:
- similpelle sintetica: ovvero realizzata con materiali di sintesi, come polimeri plastici;
- similpelle vegetale: ottenuta dalla coltivazione e dalla lavorazione di alcune piante, come ad esempio il cactus, ma anche da funghi, bucce di frutta e molto altro ancora.
Appare quindi evidente come sia sbagliato utilizzare il termine ecopelle come sinonimo della pelle finta. Un disguido nato probabilmente agli inizi degli anni ‘90, quando diversi gruppi animalisti e alcuni stilisti utilizzarono questa definizione per identificare alcune tipologie di similpelle, da poco apparse sul mercato.
Perché la finta pelle è etica, ma non sempre sostenibile
Come ho accennato in apertura, non vi è dubbio che la finta pelle sia un’alternativa etica per coloro che non vogliono acquistare o indossare derivati di origine animale. Eppure, le necessità etiche e quelle ambientali non sempre coincidono: una pelle etica non è necessariamente anche una pelle più sostenibile.
La similpelle di sintesi non è altro che un materiale realizzato in fibre sintetiche, ricoperto da uno strato plastico in poliuretano – un derivato petrolchimico – su cui vengono riprodotte le rugosità tipiche della pelle vera. In altre parole si tratta di plastica, peraltro anche decisamente inquinante: così come rivela Sustainability Lab, il poliuretano richiede grandi quantità di petrolio per poter essere realizzato, è per sua natura altamente infiammabile e deve essere quindi sottoposto a trattamenti con ritardanti bromurati di fiamma e, in caso dovesse essere smaltito negli inceneritori, rilascia gas tossici. Come se non bastasse, accessori e indumenti realizzati con questa pelle di sintesi sono particolarmente inclini alla produzione di microplastiche.
Va da sé che un simile materiale, così come qualsiasi altro derivato della plastica, non possa di certo essere considerato un’alternativa più sostenibile rispetto alla pelle vera oppure alla similpelle vegetale.
Discorso diverso proprio per la similpelle vegetale che, essendo ricavata da fibre completamente naturali, sul fronte della sostenibilità si rivela ben più interessante. La grande maggioranza delle materie prime oggi utilizzate è biodegradabile, tanto che alcune aziende stanno anche sperimentando la produzione di borse, scarpe e altri accessori compostabili al termine del loro ciclo di vita. Calcolarne l’effettivo impatto ambientale è difficile, poiché le tecniche di produzione sono assai diverse da azienda ad azienda: in genere, le migliori performance si registrano per quelle similpelli vegetali realizzate con fibre di scarto di prodotti alimentari, come bucce di banana o di mela. Questo perché la produzione avviene spesso all’interno di un modello di economia circolare, tramite partnership con aziende agricole e alimentari già radicate sul territorio.
La pelle più sostenibile? Quella che abbiamo già
Abbiamo visto come, per chi non desidera indossare pelli di derivazione animale, la similpelle vegetale sia la soluzione ideale in termini ambientali. Ma se si volesse valutare la sostenibilità delle varie tipologie di pelle, aldilà del tema etico, quale bisognerebbe scegliere? La risposta è semplice: quella che si ha già.
Non c’è niente di più sostenibile che utilizzare un indumento, una borsa oppure un paio di scarpe il più a lungo possibile, magari donando a questi accessori una seconda vita quando ormai consumati, ad esempio con del riciclo creativo. È questa la moda più sostenibile possibile: quella che evita di acquistare – e quindi di produrre, con quel che ne consegue in termini di sfruttamento di materie prime e risorse naturali – nuovi indumenti a ogni cambio di stagione. Una borsa in vera pelle, conciata al vegetale e come nuova dopo 20 anni è per definizione più sostenibile rispetto a un’alternativa in plastica, che rischia di finire in discarica nemmeno a pochi mesi dalla sua messa in commercio!
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