A tavola

Latte: i risvolti etici e ambientali


Tessa Gelisio, risvolti etici del latte

Vi siete mai soffermati a riflettere sui risvolti etici e ambientali dovuti al consumo di latte? Da sempre considerato uno dei cardini della dieta, il latte – in particolare quello vaccino – è diffuso sulle tavole di gran parte degli italiani. Eppure, la sua produzione non sembra essere pienamente sostenibile, sia in termini di tutela delle esigenze animali, sia per quanto riguarda il suo impatto ambientale. Che fare?

Anche quando si decide di non seguire una dieta priva di ingredienti di origine animale, come quella vegana, le scelte di consumo consapevoli permettono di ridurre enormemente l’impatto del latte, sia sull’ambiente che sugli animali da allevamento. Di seguito, qualche informazione utile.

I risvolti etici dovuti al consumo di latte

Latte in bottiglia

Per quanto pensando al latte balzino alla mente immagini bucoliche di mucche libere di pascolare sui prati verdi degli alpeggi montani, la realtà dei fatti è un’altra: la gran parte del latte che arriva sulle nostre tavole proviene da allevamenti intensivi. E, proprio per questo, si rende doverosa una riflessione sui risvolti etici dovuti al consumo di latte.

Una questione che comprende due grandi questioni:

  • le condizioni di allevamento dei vitelli;
  • le condizioni di allevamento delle mucche.

Latte da allevamenti intensivi e gestione dei vitelli

Mentre nei sempre più rari allevamenti tradizionali si tende a seguire il naturale ciclo di svezzamento dei vitelli – ovvero, i piccoli sono liberi di alimentarsi direttamente dalla madre almeno dei primi sei mesi di vita – negli allevamenti intensivi la situazione è ben diversa.

Lo studio Diary 2014 condotto dall’United States Department of Agricolture (USDA), pubblicato nel 2016 sulla base dei dati raccolti tra il 1991 e il 2014, offre una buona fotografia delle pratiche tipiche scelte all’interno degli allevamenti intensivi. Pratiche che trovano applicazione anche in Europa, seppur con qualche piccola differenza.


In linea generale:

  • il vitello viene allontanato dalla madre a poche ore dalla nascita, sia per ottenere latte pronto alla vendita a pochi giorni dal parto, sia per limitare la diffusione di infezioni fra capi adulti e vitelli stessi;
  • fino ai 60-90 giorni di età, i vitelli vengono chiusi in gabbie individuali e alimentati con latte bovino oppure suoi succedanei;
  • nei primi giorni di vita, solo il 2.6% dei vitelli riceve il colostro – ovvero “il primo latte”, ricco di proteine e di anticorpi – direttamente dalla madre e solo il 15.8% lo riceve in somministrazione dall’allevatore.

L’allontanamento del vitello dalla madre non solo influisce sul benessere reciproco e sulla socializzazione del nuovo nato, ma anche sul suo sistema immunitario: poter approfittare del latte materno, infatti, è essenziale per rafforzare le difese immunitarie.

Ma cosa succede ai vitelli, una volta separati dalla madre?

  • le femmine vengono allevate per la produzione di latte: non appena saranno sessualmente mature, verranno inseminate artificialmente;
  • i maschi vengono invece messi all’ingrasso, per la produzione di carne magra. In questa fase, il vitello può essere alimentato anche fino al 20% in più del suo reale fabbisogno.

Le mucche da latte negli allevamenti intensivi

Mucca da latte negli allevamenti intensivi

Non va di certo meglio alle madri, ovvero le mucche da latte, all’interno degli allevamenti intensivi. Così come riferisce CIWF Italia, sono circa 2.5 i milioni di mucche da latte allevate sullo Stivale, ben 380 milioni in tutto il mondo.

Per assicurare una produzione di latte costante, queste mucche vengono di continuo inseminate artificialmente e, come ho già spiegato, poco dopo il parto vengono separate dai loro piccoli. A questo punto, si apre un ciclo di circa 10 mesi, dove:

  • le mucche vengono munte più volte al giorno, per favorire la produzione di latte. La razza Holstein, la più utilizzata a questo scopo, arriva a produrre fino a 28-30 litri di latte al giorno, contro i 4-7 che produce invece una mucca da carne a cui è permesso di allattare il suo vitello fino allo svezzamento;
  • a ridosso dei 10 mesi dal parto, quando la quantità di latte inizia a calare, la mucca viene nuovamente inseminata.

Sempre CIWF Italia specifica che, nel picco della lattazione, alcune mucche vengono stimolate per ottenere fino a 60 litri di latte al giorno. Ma cosa accade a questi bovini in un ciclo così intensivo:

  • si verificano frequenti mastiti e altre infezioni alla mammella;
  • gli ambienti chiusi e gli spazi limitati dell’allevamento intensivo favoriscono la diffusione di batteri;
  • per limitare le infezioni, spesso i bovini vengono sottoposti a intensi cicli preventivi con antibiotici, un fatto che sta influenzando enormemente il problema della resistenza a questa categoria di farmaci sia per gli animali che per gli esseri umani;
  • si registrano frequenti problemi di fertilità, date le inseminazioni continue;
  • verso i 5-6 anni d’età, quando la mucca non riesce più a sostenere questi standard di produzione, viene inviata al macello.

I risvolti ambientali dovuti al consumo di latte

Latte e pesticidi

Gli allevamenti intensivi per la produzione di latte, in particolare quello vaccino, presentano anche un elevato impatto ambientale. Secondo quanto reso noto dall’Università degli Studi di Milano, si stima che in Italia questo settore di produzione sia responsabile del 5.6% delle emissioni di gas climalteranti. Fra questi, la produzione di latte vaccino è responsabile del 37% di tutte la CO2 emessa dall’intero settore, configurandosi come la tipologia di allevamento a più elevato impatto ambientale.

Nel dettaglio, per ogni litro di latte prodotto si emette:

  • da 0,96 a 2,32 chilogrammi di CO2 equivalente;
  • una media di 1,37 chilogrammi di CO2 equivalente.

Non è però tutto, perché questi allevamenti emettono grandi quantità di metano e di protossido di azoto, nonché causano altri danni di tipo ambientale. Sempre secondo l’Università degli Studi di Milano:

  • si registra un consumo del suolo elevato, in particolare per le colture di vegetali che verranno trasformati in mangimi per i bovini;
  • si verifica contaminazione del suolo, sia tramite lo smaltimento delle deiezioni bovine che per l’ampio utilizzo di fertilizzanti di sintesi per la produzione di mangimi;
  • si consumano grandi quantità di energia, sia per le attività stesse dell’allevamento che per la produzione del prodotto finito;
  • si emettono grandi quantità di inquinanti atmosferici con il processo di distribuzione del latte, che avviene perlopiù tramite autocarri su strada.

A livello più generale, gli allevamenti intensivi – sia per la produzione di latte che di carne – sono tra i principali responsabili della deforestazione, in particolare nei cosiddetti “polmoni del mondo”, come ad esempio l’Amazzonia. Secondo la FAO, inoltre, il settore lattiero-caseario è responsabile del 4-5% di tutti i gas serra emessi a livello mondiale e la quota sembra aumentare di anno in anno.

L’alternativa del latte biologico

Decisamente meno impattante è l’alternativa del latte biologico, poiché l’intero sistema produttivo è improntato su una maggiore sostenibilità ambientale e sul trattamento etico degli animali. D’altronde, esattamente come avviene per l’agricoltura biologica, anche l’allevamento di questo tipo deve sottostare a rigidi disciplinari, nonché a quanto previsto dalla legge con il Regolamento CE 889/2008.

Entrando nel dettaglio, la produzione biologica di latte prevede:

  • l’allevamento delle mucche al pascolo come scelta preferenziale e, quando non possibile, l’accudimento degli animali in spazi consoni, puliti, areati e privi di strutture o gabbie di contenzione. Ancora, deve essere garantita l’illuminazione naturale;
  • l’alimentazione dei bovini con foraggi e mangimi provenienti da agricoltura biologica, meglio ancora se prodotti in loco dalla stessa azienda agricola;
  • un ciclo di alimentazione che segua i naturali ritmi della mucca, senza farmaci o addittivi che portino l’animale al rapido ingrasso. Non a caso, all’interno dell’allevamento biologico è vietata l’alimentazione forzata;
  • l’assenza di tecniche di riproduzione artificiale – come il trasferimento degli embrioni per le mucche – seppur sia consentita l’inseminazione artificiale;
  • quando possibile, un tempo di svezzamento del vitello secondo i ritmi naturali, quindi all’incirca a sei mesi dal parto. Se ciò non è possibile, è necessario evitare l’isolamento sociale del piccolo e, ancora, garantirne comunque l’accesso al latte materno per i primi tre mesi di vita;
  • la mancata somministrazione di antibiotici a scopo preventivo.

Per l’allevamento bio, inoltre, è consigliato evitare che le mucche partoriscano a ciclo continuo – quindi con inseminazioni a 10 mesi dal parto, come negli allevamenti intensivi – ma seguire delle tempistiche più dilungate, il più possibili vicine ai 20 mesi.

A livello ambientale, l’alimentazione naturale e biologica riduce le emissioni di metano prodotte da ogni singolo bovino. In più:

  • l’impatto delle deiezioni è minore, poiché la gran parte viene utilizzata come fertilizzante naturale per i campi, soprattutto nei contesti di economia circolare fra allevamento e agricoltura;
  • la produzione di foraggi è più sostenibile, sia perché avviene tramite la manutenzione dei prati locali preesistenti, con la produzione di fieno, sia perché eventuali campi coltivati appositamente seguono i dettami dell’agricoltura biologica.

In definitiva, il latte che portiamo ogni giorno in tavola è lontano da essere eticamente e ambientalmente sostenibile. Ma cosa si può fare? Ridurne il consumo, quando non è possibile eliminarlo, e prediligere allevamenti biologici certificati.

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