Punto di vista

Sviluppo sostenibile: cosa significa e cosa comporta


Un modello di sviluppo sostenibile è fondamentale per limitare l’impatto sull’ambiente: vediamo di cosa si tratta e cosa sta facendo la politica per implementarlo.

Sviluppo sostenibile: un’espressione sconosciuta ai più fino a un decennio fa, e che ormai invece sentiamo citare sempre più spesso. Anche chi non conosce la definizione precisa, o la storia di come si è evoluto nel tempo questo concetto, è in grado, a grandi linee, di comprendere di cosa si tratta: la sostenibilità è un termine che colleghiamo immediatamente alla riduzione dell’impatto ambientale, ma per molti uno “sviluppo sostenibile” è quasi una contraddizione in termini. Come può esserci crescita economica, in un pianeta con risorse limitate?

Eppure, ridurre la nostra impronta ecologica è una necessità sempre più urgente. Emissioni di CO2 e gas climalteranti, responsabili dei cambiamenti climatici davanti ai nostri occhi, inquinamento, deforestazione, perdita di biodiversità: lo sfruttamento delle risorse naturali sta diventando via via più massiccio, come dimostra anche la data dell’Earth Overshoot Day (il giorno in cui l’umanità esaurisce le risorse naturali che la Terra genera in un anno), che ogni anno avviene in anticipo rispetto al precedente.

Il raggiungimento del benessere economico di una nazione non può avere un prezzo così alto: lo sviluppo deve essere sostenibile, e non solo per l’ambiente. Vediamo insieme com’è nato questo approccio, in cosa consiste e come viene applicato dalle politiche attuali.

Sviluppo sostenibile: cosa significa?

Iniziamo dal contesto storico. A partire dagli anni ’60, si diffonde tra la popolazione una coscienza ambientale, grazie anche alla pubblicazione del libro “Primavera silenziosa” della biologa Rachel Carson, incentrato sui sempre più allarmanti fenomeni di inquinamento.
Qualche anno dopo, inizia a farsi strada anche tra gli esperti un pensiero dello sviluppo in chiave ecologica: il rapporto del M.I.T. di Boston del 1972, intitolato “I limiti dello sviluppo”, criticava fortemente l’ideologia dei Paesi industrializzati, ancora convinti di poter crescere con un ritmo costante come negli anni precedenti, e che la soluzione ai problemi dei Paesi poveri fosse l’industrializzazione. Il gruppo di ricercatori sosteneva che le risorse naturali disponibili sono un limite invalicabile alla crescita economica mondiale, sottolineando la necessità di rispettare le leggi naturali di conservazione dell’ambiente e di pensare a un nuovo modello di sviluppo.

Pertanto, nel 1983 le Nazioni Unite istituiscono la Commissione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo, conosciuta come Commissione Brundtland perché presieduta dalla premier norvegese Gro Harlem Brundtland, nota per il suo impegno ambientalista; lo scopo era appunto quello di ideare un nuovo modello di sviluppo, che conciliasse la crescita economica, il rispetto del pianeta e l’equa distribuzione dei redditi e delle risorse. Il concetto di “sviluppo sostenibile” è stato ufficialmente introdotto nel 1987 con la pubblicazione del Rapporto della Commissione Brundtland: esso afferma che lo sviluppo è sostenibile quando “consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”; una definizione tuttora riconosciuta e condivisa a livello mondiale.

I 4 pilastri dello sviluppo sostenibile

Dopo questa definizione sono seguiti vari dibattiti internazionali, volti a riconoscere i tratti distintivi dello sviluppo sostenibile: l’integrità ecologica, ovvero la creazione di ricchezza tutelando la conservazione degli stock naturali; l’efficienza economica, anche nell’uso delle risorse; l’equità sociale, estesa anche alle generazioni successive. Nasce così l’idea del “triangolo della sostenibilità”, in quanto lo sviluppo sostenibile si fonda su tre pilastri: ambiente, economia, società. Recentemente è stato introdotto il quarto pilastro della sostenibilità: le istituzioni. Esse sono considerate essenziali affinché possano svilupparsi azioni concrete: servono infatti delle autorità responsabili di queste tematiche, che definiscano le priorità e la realizzazione degli obiettivi, influenzando le scelte politiche.

Agenda 2030 e impegni politici

Quali sono stati i tentativi di implementare lo sviluppo sostenibile, dalla sua prima definizione all’ultimo documento adottato dai Paesi membri delle Nazioni Unite, l’Agenda 2030?

Una delle tappe fondamentali è il Summit della Terra delle Nazioni Unite tenutosi a Rio de Janeiro nel 1992, incentrato su temi ambientali di interesse globale (e non più solamente locale). Durante la Conferenza di Rio sono state siglate 3 convenzioni (la Convenzione sulla diversità biologica, la Convenzione sulla lotta alla desertificazione e la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici) e 3 dichiarazioni di principi: la Dichiarazione di Rio su ambiente e sviluppo (conosciuta come “Carta della Terra”), la Dichiarazione dei principi sulla gestione delle foreste e l’Agenda 21, un Piano d’azione per la promozione di uno sviluppo sostenibile per il 21° secolo in campo sociale, ambientale ed economico, finanziato da enti pubblici e privati degli oltre 170 Paesi firmatari, Banca Mondiale, UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente), UNDP (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo). Un inizio promettente ma forse poco concreto: in seguito, è stato definito più che altro come uno sguardo al nuovo millennio.

Ci sono voluti 10 anni per passare dall’Agenda 21 all’Azione 21: è infatti durante il Summit Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile (Johannesburg 2002) che i capi di Stato si sono confrontati sulle decisioni prese a Rio. In quest’occasione è stato adottato il Piano di Implementazione dell’Agenda 21, un documento che individua le aree su cui concentrare le azioni: lotta alla povertà, modelli di produzione e consumo, protezione e gestione delle risorse naturali, salute, globalizzazione. Ci furono però due grossi limiti: il piano non era giuridicamente vincolante ed inoltre non hanno partecipato al Summit gli Stati Uniti, per volere dell’allora Presidente George W. Bush.

Un’altra “pietra miliare” nella storia dello sviluppo sostenibile è rappresentata dalla Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile, conosciuta come Rio +20 perché tenuta nel XX anniversario del Summit della Terra (quindi nel 2012): si è conclusa con il documento finale “Il futuro che vogliamo” contenente oltre 700 impegni su base volontaria. Nonostante la partecipazione di ben 193 Paesi, la Conferenza è stata molto criticata perché ha sostanzialmente ripreso il piano di azione di Agenda 21 (poche le novità, solo un breve accenno alla green economy) e ancora una volta non sono state intraprese azioni reali: non vennero stabiliti né obiettivi concreti né tempistiche.

Se non altro, però, i buoni propositi scaturiti sono stati la base di partenza per la definizione dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, contenuti nell’Agenda 2030, un programma d’azione universale approvato dai 193 Stati membri delle Nazioni Unite nel corso del Vertice ONU sullo Sviluppo Sostenibile svolto a New York nel 2015. I 17 Obiettivi si basano sulle tre dimensioni dello sviluppo sostenibile, ovvero economia, ambiente e società: riguardano settori come la povertà, la disuguaglianza, la sicurezza alimentare, la sanità, il consumo e la produzione sostenibili, la crescita e l’occupazione, le infrastrutture, la gestione sostenibile delle risorse naturali, i cambiamenti climatici, la parità di genere, le società pacifiche e inclusive, l’accesso alla giustizia e istituzioni responsabili.
La principale differenza rispetto al passato è che i 17 Obiettivi sono accompagnati da una lista di 169 sotto-obiettivi (o target) cui fare riferimento per la realizzazione, e i risultati sono misurabili con appositi indicatori; non più solo parole, insomma.

A che punto è l’Italia?

Per consentire l’attuazione dell’Agenda 2030, il Ministero dell’Ambiente ha sviluppato come punto di partenza una valutazione del “Posizionamento” dell’Italia rispetto ai 17 Obiettivi dell’Agenda 2030 considerando i 169 target.
Questo grafico è una rappresentazione delle distanze dei 17 Obiettivi dallo stato attuale al punto di arrivo ideale nel 2030, dove 1 rappresenta la massima distanza (peggioramento delle condizioni per raggiungere l’obiettivo), 2 è la tendenza al raggiungimento dell’obiettivo non omogenea e di difficile previsione, mentre 3 indica la tendenza al raggiungimento dell’obiettivo nel 2030, o anche un obiettivo già raggiunto.

Se consideriamo l’Obiettivo 1, “Povertà Zero”, abbiamo una prima evidenza di come la povertà in Italia rappresenti ancora un problema sociale importante, e con un trend peggiorativo in atto.

Sicuramente c’è ancora tanto da fare, l’Agenda 2030 è un programma ambizioso, e la sua realizzazione significherebbe una maggior prosperità: si propone non solo di rispettare i limiti delle risorse naturali, ma anche di mettere fine alle ingiustizie sociali e alle disuguaglianze economiche. “Pensa globalmente, agisci localmente”, diceva il filosofo Zygmunt Bauman: di Terra ne abbiamo una sola, le emergenze riguardano tutti noi, e ognuno può, nel suo piccolo, fare la propria parte per un futuro migliore.

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1 Comment

  • Reply
    GIULIA
    26 Ottobre 2022 at 10:13

    L’agenda 2030 è un progetto ambizioso, ma penso che se ognuno di noi si impegnasse almeno un po’ ogni giorno, nella lunga distanza si vedrebbero grandi risultati!

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