Avete mai pensato ai danni ambientali che la fast fashion causa anche con la distribuzione e l’invenduto? Nel precedente approfondimento qui su Ecocentrica, vi ho parlato di tutti i problemi che la produzione usa e getta di indumenti sta causando al Pianeta. Ma è solo una parte del problema, inquiniamo anche per trasportare questi capi da una parte all’altra del mondo o, ancora, smaltndo in maniera assurda l’invenduto.
A questo si aggiunge il problema dei resi facili, responsabile dell’emissione di quantità enormi di gas climalteranti dato che viaggiano su e giù per i continenti: vale davvero la pena, quindi, acquistare decine di abiti solo per il gusto di provarli e poi restituirli?
Costi ambientali di trasporto insostenibili
Oltre il 73% degli indumenti oggi venduti negli Stati Uniti è stato prodotto nel Sudest asiatico. Questo significa che, una volta confezionati, questi vestiti devono essere trasportati da una parte all’altra del Globo, con tutto quel che ne consegue in termini di emissioni climalteranti. E spesso, quando non venduti, questi abiti mai usati vengono abbandonati nell’ambiente.
Un deserto sommerso da abiti nuovi in Cile
Con una sovrapproduzione incredibile, non tutto quello che si produce viene venduto. Secondo i dati raccolti da Greenpeace, che di recente ha inaugurato una petizione per richiedere una moda più sostenibile e interventi più ferrei per fermare la fast fashion, circa il 25% di tutti gli abiti prodotti a livello mondiale non viene venduto.
E cosa succede quando la collezione cambia e le catene di distribuzione si trovano con quintali di invenduto da gestire nei magazzini o nei negozi? Una buona parte finisce in Cile, abbandonato nel deserto dell’Atacama.
Già ribattezzato “il cimitero del fashion”, porzioni considerevoli del deserto dell’Atacama sono ricoperte da vestiti mai utilizzati. Con l’istituzione nel 1975 della zona franca nella città portuale di Iquique, il Cile è diventato uno dei principali approdi dell’invenduto tessile mondiale. Ogni anno più di 44 milioni di tonnellate di indumenti nuovi arrivano qui da Europa, Asia e Stati Uniti, complici i costi irrisori di importazione. Una volta sdoganati:
- l’invenduto di alta qualità viene acquistato da imprese locali, in particolare outlet, per rivenderlo nelle proprie catene;
- l’invenduto di bassa qualità – la maggior parte delle importazioni – viene ceduto ai locali, pagati per provvedere allo smaltimento. Per assenza di regolamentazioni, e soprattutto di sistemi idonei di recupero e trattamento, per questi attori è molto più conveniente gettarlo nell’ambiente anziché venderlo o riciclarlo, e così i capi vengono letteralmente abbandonati nel deserto.
Il dramma dei resi facili della fast fashion
È uno dei punti di forza su cui fanno leva i principali operatori online della fast fashion: la politica dei resi facili. Compri in gran quantità, una volta che gli indumenti arrivano a casa puoi scegliere quali tenere e quali restituire, il tutto senza costi aggiuntivi. Almeno per il portafoglio dell’acquirente, perché i costi in termini ambientali non sono affatto esigui.
Il rapporto Moda in Viaggio, realizzato da Greenpeace con la collaborazione di Report, ha evidenziato come un capo acquistato online e poi reso, può arrivare a compiere tragitti addirittura di 10.297 chilometri. In pratica, ogni volta che si fa un reso, in media si aumentano del 24% le emissioni di CO2 totali legate all’indumento. Con 4.502 km medi tra acquisto e restituzione di un indumento, si emettono 2.78 chilogrammi di CO2 equivalente per singolo vestito. Una filiera logistica schizofrenica, così come l’ha definita l’associazione, che non beneficia nessuno: né il consumatore, né l’ambiente.
Questa tendenza di acquistare più capi possibile, per poi affidarsi al reso, ha un nome: è il bracketing. E i consumatori non sono particolarmente informati sulle sue conseguenze: ogni volta che si fa un reso, quel capo deve essere nuovamente trasportato alla casa produttrice, che poi dovrà controllarlo, eventualmente ripararlo e riconfezionarlo prima di poterlo rimettere in vendita. Sempre che lo faccia, poiché spesso è più economico per le grandi aziende gettarlo, anziché recuperarlo per una seconda vita. Va anche detto che molti gruppi, anche grazie alle pressioni dei consumatori, stanno rendendo più difficile la politica dei resi, ancora poco affinché possa avere un impatto positivo sull’ambiente.
In definitiva, per soddisfare la nostra voglia di abiti sempre nuovi – che spesso non superano nemmeno una stagione – indossiamo capi che transitano da luoghi remoti del mondo, che spesso rimandiamo anche al mittente, raddoppiando così le loro emissioni. Nel prossimo e conclusivo approfondimento, vi parlerò del problema dello smaltimento di questi abiti.
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