Le tante criticità del sistema di certificazione RSPO
L’olio di palma è sicuramente uno degli ingredienti alimentari più discussi. Da quando nel dicembre di due anni fa la UE ha cambiato il regolamento delle etichette, obbligando a specificare il tipo di olio impiegato, non è più stato possibile nasconderlo dietro la generica dicitura “oli vegetali”; è iniziato così un vero proprio boicottaggio da parte di molti consumatori e le aziende hanno dovuto adeguarsi. C’è che lo ha eliminato, assicurandosi di scriverlo in bella vista sulle nuove confezioni, e chi invece ha speso parole sulla sua sicurezza e sostenibilità.
Ma fa male oppure o no? Difficile dire da che parte stia la verità: sono pochi gli studi indipendenti, la maggior parte sono condotti da medici e ricercatori finanziati dalle stesse aziende produttrici che fanno largo uso di olio di palma, creando un evidente conflitto di interessi.
La maggior parte di queste aziende poi sono anche grossi investitori nel campo pubblicitario, influenzando inevitabilmente i media. So bene anch’io che la lobby dell’olio di palma è molto potente: mi sono scontrata con questa realtà per promuovere il progetto di forPlanet “All’orango io ci tengo!”. Tanti canali media hanno scelto di non sostenerla, in qualche caso confidandomi che non potevano schierarsi contro l’olio di palma.
Foto: www.nutella.com
Il Fatto Alimentare ha invece denunciato che quasi tutti gli articoli seguiti alla recente conferenza stampa di Ferrero hanno semplicemente ripreso il comunicato dell’azienda, senza obiettare, fare domande, approfondire, sollevare dubbi. L’azienda è ultimamente sotto la lente di ingrandimento per il suo nuovo spot sull’olio di palma, in cui asserisce che non faccia male né all’ambiente, perché proveniente da coltivazioni sostenibili, né alla salute, perché lavorato a basse temperature (le tre sostanze considerate cancerogene da Efsa si formerebbero solo nel processo di raffinazione che avviene a 200°).
Non essendo medico non posso sbilanciarmi sull’aspetto legato alla salute, anche se sono portata a diffidare dagli studi sbandierati dalle aziende che li hanno commissionati, vorrei ricerche serie e indipendenti; certo è che nella maggior parte dei casi quella della palma da olio è una coltivazione intensiva che sta distruggendo le foreste tropicali del sud-est asiatico, come ho potuto vedere di persona.
Sarà vero che Ferrero si è seriamente impegnata per limitare l’impatto ambientale?
Secondo Greenpeace, pare proprio di sì. Affermano che sia una delle aziende che si è maggiormente preoccupata di trovare soluzioni per rendere più sostenibile la coltivazione di palma da olio, ad esempio cessando di deforestare per creare nuove piantagioni. Così come prevede il POIG (Palm Oil Innovation Group), un gruppo creato da produttori attenti all’ambiente e diverse associazioni come appunto Greenpeace, a cui Ferrero ha appena aderito: «È stato creato per andare oltre la certificazione rilasciata dalla Tavola Rotonda sull’Olio di Palma Sostenile (RSPO), ad esempio chiedendo il rispetto dei diritti dei lavoratori o delle comunità locali, o definendo chiaramente quali aree non si possono deforestare, come le torbiere», spiega Chiara Campione, responsabile Campagna foreste di Greenpeace. «Il POIG non è una certificazione, è un accordo con il quale l’azienda si impegna a raggiungere questi obiettivi, che verranno monitorati nel tempo.»
La famosa RSPO, certificazione di sostenibilità ambientale di cui tanti produttori tutt’oggi fanno un vanto, è invece duramente criticata da molte associazioni ambientaliste come Greenpece: «Al momento, non la riteniamo affidabile. All’interno della RSPO, infatti, ci sono anche aziende che non sono in grado di garantire che nella propria filiera produttiva non si verifichino fenomeni come la deforestazione o pratiche illegali come l’incendio delle torbiere. Greenpeace è sempre stata molto critica nei confronti degli standard di certificazione della RSPO, ed in più occasioni abbiamo denunciato fenomeni di deforestazione illegale all’interno di concessioni dei loro membri.»
Ma quali sono i principali punti critici di questo sistema di certificazione? Prima di tutto, i parametri poco restrittivi. Il principale danno ambientale causato dal dilagare delle piantagioni è la deforestazione e RSPO non garantisce che ciò non avvenga. I loro sistemi di classificazione delle aree deforestabili fanno rientrare in questa categoria le torbiere (un particolare tipo di foresta umida molto importante) così come molte altre aree forestali; la classificazione delle zone deforestabili per il POIG, invece, è molto più selettiva e le torbiere, per esempio, non vi rientrano.
Ho studiato tutta la documentazione che ho trovato al riguardo e ho preparato diverse domande per Stefano Salvi, Responsabile delle Relazioni Esterne di RSPO, che mi ha colpito per l’estrema onestà intellettuale e trasparenza: non nega nessuna delle “accuse” rivolte al loro sistema di certificazione. «L’obiettivo di RSPO è quello di includere più aziende possibile, arrivando a trasformare il 100% dei produttori: per raggiungerlo non possiamo avere dei parametri troppo rigidi né permetterci di lavorare solo con poche aziende.» Insomma, per allargare il bacino di aziende certificate, l’asticella della sostenibilità deve essere inevitabilmente abbassata.
E così, capita che certifichino anche aziende che hanno distrutto aree di foresta primaria per creare nuove piantagioni… «Abbiamo creato, per determinate situazioni, dei sistemi di compensazione del danno ambientale: il coltivatore paga un corrispettivo economico che viene messo in un fondo a disposizione di Organizzazioni non governative, che lo utilizzano per progetti di conservazione o riforestazione.»
Un caso eclatante è stato quello di IOI Group, grossa azienda malese che opera nel settore dell’olio di palma da molto tempo, certificata RSPO. In seguito alla violazione di diverse leggi ambientali e di diritti dei lavoratori in Indonesia, è stata inizialmente sospesa ma poi riammessa, nonostante le proteste delle associazioni ambientaliste.
Sono d’accordo con il punto di vista di Greenpeace: RSPO al momento non sta fermando la deforestazione. Dal canto suo, RSPO si giustifica dicendo che togliere la certificazione a un’azienda non servirà a migliorare i suoi standard, anzi. E su questo hanno ragione.
Inoltre, forse è vero che meno aziende coinvolgi e meno possibilità hai di cambiare le cose, ma secondo me è meglio avere una sola azienda che usa davvero olio di palma sostenibile che mille che fanno il minimo sindacale, perché almeno i consumatori potrebbero premiare quella, indirizzando il mercato e spingendo anche le altre a migliorare: come sempre la differenza la fa il consumatore e di conseguenza la finanza e la politica che si seguono gli acquisti e i voti.
Vogliamo che ci sia uno stop alla deforestazione? L’olio di palma RSPO non ce lo garantisce. E non facciamoci ingannare dalla parola sostenibile, in realtà è solo meno peggio di altri.
È vero che sostituire tutto l’olio di palma del mondo con altri oli non sarebbe possibile e avrebbe un impatto ambientale più alto, perché quello di palma ha un’ottima resa in proporzione alla quantità. Forse dovremmo semplicemente rivedere i nostri consumi i generale: oggi stiamo già utilizzando le risorse di un pianeta e mezzo, ma il nostro pianeta è e sarà sempre solo uno!
La domanda mondiale di olio di palma continua a crescere e continua a dilagare come una piaga; in Italia molte aziende lo stanno togliendo dai propri prodotti, ma l’uso alimentare non è che una piccola parte e il boicottaggio sta avvenendo solo da noi: se venisse boicottato in tutto il mondo, forse ci sarebbe meno deforestazione, per lo meno a causa di questo prodotto.
Speriamo che la strada di Ferrero sia seguita da più aziende possibile per rendere questa coltivazione un po’ più sostenibile e soprattutto stopparne la crescita a discapito delle foreste; l’olio di palma di Ferrero che percentuale sarà di tutta la produzione mondiale? 0,000…%? Troppo poco per poter cantare vittoria e considerare il problema risolto!
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